Chiara Venturini

Musicista del gruppo industrial post punk CRP Collettivo Rivoluzionario Protosonico, Chiara Venturini consegue il diploma di pianoforte al Conservatorio “A. Vivaldi” di Alessandria e si laurea e specializza in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo (indirizzo Scenografia) presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara. E’ anche musicoterapista. Negli anni si è avvicinata allo studio dell’ukulele e fa parte del gruppo “KaniKapila Ukulele Band” con cui ha partecipato a diversi eventi in Italia (Festival dell'Ukulele di Vicenza nel 2018 e Ukulele for Peace di Paul Moore nel 2019 a Lucca, apertura del concerto dell’ukulelista Danilo Vignola nel 2019 ad Alessandria) e in Spagna (Barcellona 2017). Dal 2020 collabora con il gruppo musicale Yo Yo Mundi. Nel 2021 ha formato un duo ukulele e voce con Paolo Enrico Archetti Maestri ( Yo Yo Mundi) con cui ha realizzato lo spettacolo “Majakovskij e l’ukulele”. Nel maggio 2022 ha fatto parte del cast di artisti del Mediterranean Ukulele Fest (Monopolele), 1° festival internazionale di ukulele tenutosi a Monopoli (Puglia). Nell’estate 2022 ha formato il duo ukulele e voce “Le Canzoniere” con l’attrice Irene Baruffetti.

Musica, magia e fantasy: Arthuan Rebis

– di Chiara Venturini La nostra intervista a Arthuan Rebis, musicista, compositore, polistrumentista, cantante, scrittore e concertista internazionale. Rebis ha all’attivo progetti da solista e in collaborazione con vari artisti. La prima domanda che vogliamo farti è: come è avvenuto il tuo incontro con questo tipo di mondo, quello fantasy e celtico? Dal punto di vista generale direi da bambino, come sicuramente accade un po’ a tutti. Nel mio caso specifico, ho avuto la fortuna di subire la fascinazione di una rivista di parapsicologia e occultismo piena di folklore e di iconografie connesse al fantastico. Quindi, in termini generali, è avvenuto allora. Dal punto di vista musicale, il disco che mi ha aperto la mente, escludendo Branduardi, è stato Aion dei Dead Can Dance.   Hai scritto un nuovo romanzo, Helughèa. Il guardiano alato [Eterea edizioni, Visioni d’altrove] e un nuovo album di musiche correlato. Le due cose vanno ovviamente insieme. Ma in questo e in altri casi, è la scrittura che ti suggerisce la musica o viceversa? O forse anche nel processo creativo le due cose vanno in parallelo? Nel primo romanzo la musica era figlia della letteratura. Ho scritto prima i testi cantati dai personaggi, o le canzoni chiave della vicenda, e successivamente li ho musicati. Nel secondo invece l’album musicale è anche un elemento metaletterario, più indipendente. Prima dei romanzi c’è sempre stata una dimensione di forte connessione con i mondi letterari, della mitologia, della spiritualità, del fantastico, ma completamente in balìa della musica che dominava la scena.     Prima di questo avevi scritto un altro libro con cd allegato, Helughèa, il racconto di una stella foglia. Come è nato? È stata una sorta di… l’ho proprio scaricato da un sogno, come un download, mi è stato come trasmesso. Mi sono svegliato che avevo in testa tutta la vicenda estremamente articolata. Poi il lavoro di limatura è durato mesi. Per il secondo romanzo invece è stato un procedimento più premeditato. Nell’ultimo album, Ballate Mitomagiche, c’è la collaborazione con altri due musicisti. Si, Nicola Caleo, che era già presente nel precedente e con il quale suono anche con gli In Vino Veritas; e la polistrumentista Alice Petrin. Loro suonano dal vivo con me. Alice ha arricchito tutto. Come me canta, suona le cornamuse, la nyckelharpa e altri strumenti. Con la loro versatilità diventa più facile articolare e variare uno spettacolo in trio. In una realtà come quella di oggi, con il mondo sull’orlo della terza guerra mondiale, che compito credi che abbia il genere fantasy? La letteratura fantastica è stata quella che ha ammonito l’umanità prima delle due guerre mondiali. Se pensiamo al Faust, alla sua progenie di miti moderni, o al Golem e poi alle calamità che sono seguite, notiamo che il fantastico è un impulso irrazionale dell’ombra che viene repressa e sfocia nell’arte da questa intersezione comune dell’inconscio dell’umanità, generando questi mostri. Sono demoni che appaiono feroci, ma il loro è un messaggio di compassione, sono messaggeri dell’Apocalisse che cercano di ammonire l’umanità. Il mio ultimo romanzo parla anche di incombenti guerre mondiali spaventose, ma non è stata una scelta premeditata, è emersa. Quando uno cerca la guarigione individuale deve confrontarsi con quella della collettività. Il fantastico ha sempre avuto un ruolo nobile a partire dalla fiaba, che non è strettamente per bambini: come intendeva anche Tolkien, è una maschera del mito e il mito è quello che ci racconta qualcosa in modo universale. La magia è una componente fondamentale del mondo cui fai riferimento nei tuoi lavori. Credi che l’elemento magico in qualche modo si manifesti fra noi? Non parliamo ovviamente di curatori, truffatori e personaggi del genere. Partiamo dal presupposto che la magia più potente la incontriamo ogni secondo che passa ed è quella che chiamiamo realtà, che è sempre colorata dai nostri organi sensoriali, diversi a seconda della specie, degli individui e delle loro esperienze. Noi ci afferriamo alla realtà in un modo completamente allucinato ogni secondo che passa, immemori delle verità basilari (la mortalità, l’impermanenza, l’interdipendenza). Per me quella che chiamiamo realtà è un incantesimo potentissimo. Il termine comune “magia” sicuramente può racchiudere esperienze di coscienza non ordinaria, ma è più difficile di quanto sembri distinguere ciò che chiamiamo realtà da sogno e fantasia. Credo che ciò che faccia la differenza sia il nostro atteggiamento: anche il sogno e la fantasia sono esperienze valide da cui possiamo apprendere moltissime cose. Nel momento in cui un’esperienza è valida, io non la sottovaluterei. A me è capitato di fare sogni che dalla nostra parte duravano minuti ma, dall’altra, settimane. Parlo di sogni lucidi, e in alcuni mi è capitato di studiare testi e praticare con strumenti musicali. Ho sbloccato molte cose in sogno. Il primato tra sogno e veglia oscilla come un pendolo.       Abbiamo visto che suoni diversi strumenti: come ti sei avvicinato a ognuno di essi e qual è il primo strumento che hai imparato? Sono partito dalla chitarra e dalle tastiere, poi ho studiato musica nel senso che ho una laurea umanistica. Ma lo studio sugli strumenti è stato praticamente individuale, pur avendo avuto la fortuna di suonare con bravissimi musicisti folk internazionali. L’arpa celtica è il mio strumento principale, insieme alla nyckelharpa. C’è una ricerca molto personale dietro, sono molto disciplinato ma anche molto anarchico nello studio, diligentemente anarchico. È uno studio fatto di viaggi, pratica e intuizione. L’arpa celtica la suono con le unghie e non è la pratica comune; da molti secoli si suona con i polpastrelli. Sulla nyckelharpa ho ideato un’accordatura mia che mi permette di fare cose che gli altri non fanno, pur presentando altri limiti. Un’accordatura influenza la tecnica, lo stile. In Grecia Antica si intendeva una sola cosa quando si parlava di armonia e accordatura.    

Yo Yo Mundi

La musica collettiva e resistente degli Yo Yo Mundi

– di Chiara Venturini –   La musica collettiva e resistente degli Yo Yo Mundi  Intervista con Paolo Enrico Archetti Maestri   Yo Yo Mundi: uno dei tanti gruppi emersi nei primi anni ‘90, gli ultimi momenti di gloria della musica alternativa italiana; nati in un periodo in cui appunto tutto sembrava possibile e la creatività sprizzava da tutte le parti, gli Yo Yo Mundi proseguono tuttora la loro attività musicale con tenacia e passione, tra collettivismo e impegno. Abbiamo intervistato Paolo Enrico Archetti Maestri, il cantante, chitarrista e portavoce del gruppo. Gli Yo Yo Mundi, una realtà degli anni ‘90 che va avanti con continuità senza mai fermarsi. Te lo saresti mai aspettato? Lo abbiamo voluto fortemente ed è così ancora oggi, anzi oggi più che mai! Quando io e gli altri componenti degli Yo Yo Mundi ci siamo messi insieme, dissi loro che il mio sogno era sempre stato quello di scrivere canzoni e di suonare da professionista (avevo già sfiorato questa possibilità con due band). Il gruppo nasce con  Eugenio Merico (batterista), praticamente subito abbiamo coinvolto Andrea Cavalieri (bassista), e dopo un anno di prove e composizione nella band è entrato Fabio Martino (fisarmonica e tastiere), all’epoca quindicenne. Questa è la formazione originaria degli Yo Yo, il nostro compleanno cade il 5 marzo 1989, in occasione del nostro primo live in quattro. Abbiamo subito avuto la percezione che poteva funzionare, perché noi quattro funzionavamo prima di tutto come persone e poi anche come musicisti, ognuno con la propria peculiarità, ma con la grande attitudine di aiutarci, sempre. E poi perché avevamo gli occhi che brillavano quando si parlava di musica. Infine ci voleva coraggio, spensieratezza, tenacia, determinazione e tanta voglia di emergere e a noi non mancava nulla di tutto questo. Ci siamo fatti i primi anni ‘90, con dei semplici demo e con quelli abbiamo ottenuto recensioni su diversi giornali nazionali (all’epoca c’erano tanti giornali specializzati e quasi tutti avevano uno spazio dedicato alla musica indipendente e ai demotape). E poi suonavamo ovunque senza avere neppure un disco, ma solo una grande intraprendenza e parecchia faccia tosta. Ed Eugenio già all’epoca si dimostrava abilissimo a trovare date e organizzare le continue trasferte.   Erano altri tempi, altre situazioni, contesti molto diversi da quelli in cui viviamo oggi. Erano situazioni in cui ci si doveva adattare a tutte le cose più pazzesche e bizzarre ma allo stesso tempo creative perché ci permettevano di crescere e diventare più abili e potenti ogni volta che riuscivamo a suonare da qualche parte (facevamo anche tutti i concorsi possibili vincendone diversi, era molto istruttivo parteciparvi perché spesso c’erano impianti belli e un pubblico vergine, non quello delle solite birrerie, c’era, all’epoca molta curiosità e molta disponibilità da parte del pubblico). A proposito di situazioni bizzarre… A volte non c’era neppure il palco e ricordiamo certi impianti audio luci… davvero spaventosi!! A un certo punto avevamo un po’ esaurito birrerie e pub in cui suonare e non ci piacevano neppure più tanto. Ci mancava qualcosa, allora abbiamo cominciato a suonare in strada e siamo arrivati anche in Francia, prima la Costa Azzurra e poi addirittura quindici giorni a Parigi, mantenendoci quasi completamente con quello che ci offrivano per strada mentre suonavamo le nostre canzoni e quelle di Paolo Conte (che anni dopo definì “selvatica” la nostra musica!). Quando siamo tornati ci siamo guadagnati dei palchi più importanti. Non avevamo letteralmente più paura di niente. Nel ‘91 abbiamo realizzato un album completamente autoprodotto intitolato “Nuovi oggetti di culto”, un disco che non è mai uscito perché noi volevamo fortemente essere prodotti da Gianni Maroccolo (Litfiba, CSI) e riuscimmo grazie a un amico giornalista, Marco Baratti, a incontrarlo e nacque immediatamente una simpatia, oltre a stima reciproca. Lui preferiva, giustamente, lavorare da zero con noi e le registrazioni acerbe di “Nuovi oggetti di culto” diventarono vecchie e inutili in un battibaleno. Con lui abbiamo realizzato prima un demo con alcuni inediti e poi, finalmente, l’anno successivo, cinque anni dopo la nascita del gruppo abbiamo registrato e dato alle stampe il primo album ufficiale del gruppo.  Quanto sono rimasti gli Yo Yo Mundi di un tempo? Quanto e come sono cambiati? I Litfiba dicevano: “Siamo cinque dita della stessa mano che sul palco si trasformano in pugno.” Noi eravamo in quattro e abbiamo voluto assolutamente trovare il quinto Yo Yo. Il desiderio si è materializzato nella persona di Fabrizio Barale (chitarra), che era l’assistente di studio dove registrammo l’album “Percorsi di musica sghemba” (Columbia – Sony, 1996). Finalmente anche noi potevamo diventare un pugno chiuso! Questa formazione a cinque è durata fino al 2013, poi Fabri cominciò a essere meno presente perché aveva cominciato a fare tour con l’amico Ivano Fossati (che fu nostro ospite ne “L’Impazienza”, 1999 e scrisse per noi la canzone “Il sud e il nord” e noi Yo Yo fummo ospiti nel suo album “La disciplina della terra”). Poi anche Fabio è andato a vivere in Svizzera (suona con i Vad Vuc, grande band ticinese!), la distanza e gli impegni, lavorativi e familiari, hanno  limitato assai la frequentazione artistica e così nel 2013 ci siamo trasformati in un collettivo. Fabio inizialmente è stato affiancato e poi sostituito da Chiara Giacobbe, violinista e cantante con noi da undici anni. A seguire abbiamo ospitato Simone Lombardo, suonatore di strumenti etnici che è a tutti gli effetti uno Yo Yo ad honorem. Così come Dario Mecca Aleina il nostro ingegnere del suono e Daniela Tusa l’attrice che collabora con noi da quasi dieci anni o ancora Ivano A. Antonazzo che non suona, ma è un artista che si occupa delle copertine degli album, dei video, delle fotografie.   Ci siamo trasformati in un collettivo di circa una decina di persone che come una fisarmonica si apre e si chiude a seconda delle esigenze del momento e dei progetti. In qualche modo abbiamo ovviato così ad uno scioglimento che non è mai avvenuto, ci siamo tenuti insieme con un filo tanto sottile, quanto resistente.