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La musica collettiva e resistente degli Yo Yo Mundi

– di Chiara Venturini – Sabato 11 gennaio al Capannori Underground Festival sarà protagonista Paolo Archetti Maestri, cantante dello storico gruppo Yo Yo Mundi. Archetti Maestri sarà intervistato dal mitico Dome La Muerte e dal direttore artistico del Festival, Gianmarco Caselli. L’ingresso è libero su prenotazione fino ad esaurimento posti scrivendo una mail a associazionevaga@gmail.com Per l’occasione riproponiamo l’intervista che abbiamo fatto qualche mese fa ad Archetti Maestri   La musica collettiva e resistente degli Yo Yo Mundi  Intervista con Paolo Enrico Archetti Maestri   Yo Yo Mundi: uno dei tanti gruppi emersi nei primi anni ‘90, gli ultimi momenti di gloria della musica alternativa italiana; nati in un periodo in cui appunto tutto sembrava possibile e la creatività sprizzava da tutte le parti, gli Yo Yo Mundi proseguono tuttora la loro attività musicale con tenacia e passione, tra collettivismo e impegno. Abbiamo intervistato Paolo Enrico Archetti Maestri, il cantante, chitarrista e portavoce del gruppo. Gli Yo Yo Mundi, una realtà degli anni ‘90 che va avanti con continuità senza mai fermarsi. Te lo saresti mai aspettato? Lo abbiamo voluto fortemente ed è così ancora oggi, anzi oggi più che mai! Quando io e gli altri componenti degli Yo Yo Mundi ci siamo messi insieme, dissi loro che il mio sogno era sempre stato quello di scrivere canzoni e di suonare da professionista (avevo già sfiorato questa possibilità con due band). Il gruppo nasce con  Eugenio Merico (batterista), praticamente subito abbiamo coinvolto Andrea Cavalieri (bassista), e dopo un anno di prove e composizione nella band è entrato Fabio Martino (fisarmonica e tastiere), all’epoca quindicenne. Questa è la formazione originaria degli Yo Yo, il nostro compleanno cade il 5 marzo 1989, in occasione del nostro primo live in quattro. Abbiamo subito avuto la percezione che poteva funzionare, perché noi quattro funzionavamo prima di tutto come persone e poi anche come musicisti, ognuno con la propria peculiarità, ma con la grande attitudine di aiutarci, sempre. E poi perché avevamo gli occhi che brillavano quando si parlava di musica. Infine ci voleva coraggio, spensieratezza, tenacia, determinazione e tanta voglia di emergere e a noi non mancava nulla di tutto questo. Ci siamo fatti i primi anni ‘90, con dei semplici demo e con quelli abbiamo ottenuto recensioni su diversi giornali nazionali (all’epoca c’erano tanti giornali specializzati e quasi tutti avevano uno spazio dedicato alla musica indipendente e ai demotape). E poi suonavamo ovunque senza avere neppure un disco, ma solo una grande intraprendenza e parecchia faccia tosta. Ed Eugenio già all’epoca si dimostrava abilissimo a trovare date e organizzare le continue trasferte.   Erano altri tempi, altre situazioni, contesti molto diversi da quelli in cui viviamo oggi. Erano situazioni in cui ci si doveva adattare a tutte le cose più pazzesche e bizzarre ma allo stesso tempo creative perché ci permettevano di crescere e diventare più abili e potenti ogni volta che riuscivamo a suonare da qualche parte (facevamo anche tutti i concorsi possibili vincendone diversi, era molto istruttivo parteciparvi perché spesso c’erano impianti belli e un pubblico vergine, non quello delle solite birrerie, c’era, all’epoca molta curiosità e molta disponibilità da parte del pubblico). A proposito di situazioni bizzarre… A volte non c’era neppure il palco e ricordiamo certi impianti audio luci… davvero spaventosi!! A un certo punto avevamo un po’ esaurito birrerie e pub in cui suonare e non ci piacevano neppure più tanto. Ci mancava qualcosa, allora abbiamo cominciato a suonare in strada e siamo arrivati anche in Francia, prima la Costa Azzurra e poi addirittura quindici giorni a Parigi, mantenendoci quasi completamente con quello che ci offrivano per strada mentre suonavamo le nostre canzoni e quelle di Paolo Conte (che anni dopo definì “selvatica” la nostra musica!). Quando siamo tornati ci siamo guadagnati dei palchi più importanti. Non avevamo letteralmente più paura di niente. Nel ‘91 abbiamo realizzato un album completamente autoprodotto intitolato “Nuovi oggetti di culto”, un disco che non è mai uscito perché noi volevamo fortemente essere prodotti da Gianni Maroccolo (Litfiba, CSI) e riuscimmo grazie a un amico giornalista, Marco Baratti, a incontrarlo e nacque immediatamente una simpatia, oltre a stima reciproca. Lui preferiva, giustamente, lavorare da zero con noi e le registrazioni acerbe di “Nuovi oggetti di culto” diventarono vecchie e inutili in un battibaleno. Con lui abbiamo realizzato prima un demo con alcuni inediti e poi, finalmente, l’anno successivo, cinque anni dopo la nascita del gruppo abbiamo registrato e dato alle stampe il primo album ufficiale del gruppo.  Quanto sono rimasti gli Yo Yo Mundi di un tempo? Quanto e come sono cambiati? I Litfiba dicevano: “Siamo cinque dita della stessa mano che sul palco si trasformano in pugno.” Noi eravamo in quattro e abbiamo voluto assolutamente trovare il quinto Yo Yo. Il desiderio si è materializzato nella persona di Fabrizio Barale (chitarra), che era l’assistente di studio dove registrammo l’album “Percorsi di musica sghemba” (Columbia – Sony, 1996). Finalmente anche noi potevamo diventare un pugno chiuso! Questa formazione a cinque è durata fino al 2013, poi Fabri cominciò a essere meno presente perché aveva cominciato a fare tour con l’amico Ivano Fossati (che fu nostro ospite ne “L’Impazienza”, 1999 e scrisse per noi la canzone “Il sud e il nord” e noi Yo Yo fummo ospiti nel suo album “La disciplina della terra”). Poi anche Fabio è andato a vivere in Svizzera (suona con i Vad Vuc, grande band ticinese!), la distanza e gli impegni, lavorativi e familiari, hanno  limitato assai la frequentazione artistica e così nel 2013 ci siamo trasformati in un collettivo. Fabio inizialmente è stato affiancato e poi sostituito da Chiara Giacobbe, violinista e cantante con noi da undici anni. A seguire abbiamo ospitato Simone Lombardo, suonatore di strumenti etnici che è a tutti gli effetti uno Yo Yo ad honorem. Così come Dario Mecca Aleina il nostro ingegnere del suono e Daniela Tusa l’attrice che collabora con noi da quasi dieci anni o ancora Ivano A. Antonazzo che non suona, ma è un artista che si occupa delle

La mostra Giovani Visioni Underground

– di Chiara Di Vito – Taglio del nastro per la mostra Giovani Visioni Underground, il secondo appuntamento del Capannori Underground Festival che si è tenuto sabato 30 novembre al Museo Athena di Capannori. Protagonisti gli studenti del Liceo Artistico Musicale “A. Passaglia” di Lucca.      «Coinvolgere le ragazze e i ragazzi – afferma Gianmarco Caselli, direttore artistico del Capannori Underground Festival – per noi è fondamentale. Vogliamo che i giovani sappiano che la nostra è una realtà in cui trovare possibilità di esprimersi!».     Con più di 40 opere pensate appositamente per il Festival, all’inaugurazione erano presenti i giovani artisti della classe 5B del Liceo Artistico Musicale “A. Passaglia” di Lucca: Lisa Alfani, Sara Bacci, Elena Bargellini, Giulia Biasci, Maria Virginia Bonini, Melissa Bruno, Dario Cortopassi, Chiara Cugia, Maximiliano Fierro, Erika Ghilardi, Duccio Lazzareschi, Benedetta Lo Bianco, Giulia Matteucci, Ambra Meschi, Ismael Messaoud, Amy Pandolfi, Maria Snegiana Puglia, Gaia Querchi, Alessia Rosellini, Loreline Silvi. Opere senza una linea comune se non quella dell’Underground, dell’espressione del proprio io senza mercificazione. «Per noi – affermano gli studenti coinvolti nella mostra – questa è un’occasione per esprimere la nostra arte, senza alcun vincolo o imposizione. Ogni opera è un’istantanea dell’urgenza espressiva di una generazione che si trova sempre più priva di posti dove esprimersi». In un momento storico in cui la società sembra perdersi tra guerre, pandemie globali e la costante ricerca di produttività, competizione ed efficienza è stato veramente emozionante vedere così tanti giovani impegnati nella realizzazione di una mostra artistica collettiva. Dedicare parte del proprio tempo al “bello” è uno degli strumenti che come società abbiamo a disposizione per riaffermare la centralità dell’umanità, non intesa in contrapposizione al digitale, ma come espressione della costante ricerca di se stessi nell’imprescindibile relazione con gli altri.     Dopo il taglio del nastro, è intervenuta Claudia Berti, assessora alla cultura del Comune di Capannori: «Il fatto che oggi ci troviamo circondati da così tante opere d’arte che sono espressione comunicativa dei giovani, rende questo luogo ancora più vivo. Lo spazio culturale riservato agli studenti del Passaglia all’interno del festival ‘Capannori Underground Festival’ ci offre l’opportunità di ascoltare le aspirazioni dei giovani, che non rappresentano un futuro da attendere, ma un presente da comprendere. Essi hanno colto segnali spesso sfuggiti agli adulti, mostrando una crescente volontà di ridefinire i valori della società. A livello individuale, emerge il desiderio di essere riconosciuti nella loro specificità e di apportare un valore nuovo attraverso ciò che sono, rifiutando modelli che li riducono a caselle predefinite. Questa proposta artistica dimostra come le nuove generazioni siano protagoniste di una trasformazione sociale che merita di essere ascoltata e valorizzata». A seguire l’intervento di uno degli studenti coinvolti nella mostra: «Ringraziamo la prof.ssa Boccasso e Gianmarco Caselli che, in un periodo storico che sembra privilegiare una mente omologata, ha voluto dare uno spazio a tutti quei ragazzi che si sentono un po’ “bizzarri” o che hanno qualcosa da esprimere».     In chiusura la performance musicale del CRP Collettivo Rivoluzionario Protosonico cui si sono aggiunti, per l’occasione, Elena Tonelli ed Elettra. Una performance dai ritmi trascinanti, fra il tribalismo e l’elettronica, tratto caratteristico dello sperimentalismo del gruppo: chitarre elettriche, tastiere, timpani e rullanti che fanno coesistere sonorità primitive con lancinanti squarci sul futuro.     La mostra, a ingresso libero, sarà visitabile fino al 14 dicembre nell’orario di apertura del Museo Athena di Capannori: martedì e giovedì 9-13, venerdì 13-19, sabato 10-13 e 16-19.     L’ingresso per i prossimi eventi del Capannori Underground Festival è  gratuito su prenotazione fino ad esaurimento posti scrivendo una mail a associazionevaga@gmail.com. Il Capannori Underground Festival – Luccca Underground Festival  è organizzato da V.A.G.A. (Visioni Atipiche Giovani Artisti) con il contributo  della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e del Comune di Capannori, in collaborazione con ARCI  Lucca e Versilia, Museo Athena, Artemisia, Sistema Museale Territoriale della Provincia di Lucca, Anffas, Il Restauro, Effeottica Lucca e la mediapartenrship di La Settima Base, Riserva Indie e Radio Sankara.

Le opere dei giovani in mostra a Capannori Underground Festival

Sabato 30 novembre alle ore 17.15 SECONDO EVENTO DI ‘CAPANNORI UNDERGROUND FESTIVAL’ CON UNA MOSTRA DEI LAVORI DEGLI STUDENTI DEL LICEO ARTISTICO ’PASSAGLIA’ AL MUSEO ATHENA Dopo il successo di apertura con la Bandabardò e la partecipazione di Antonio Aiazzi, al Capannori Underground Festival sabato 30 novembre saranno protagonisti i ragazzi del Liceo Artistico “A. Passaglia” di Lucca. Le studentesse e gli studenti della classe 5B esporranno infatti le proprie opere guidati dalla professoressa Ilaria Borelli Boccasso nel contesto della rassegna “Giovani Visioni Underground” che si terrà al Museo Athena di Capannori. “Per noi – dicono gli studenti – questa è un’occasione per esprimere la nostra arte, senza alcun vincolo o imposizione. Ogni opera è un’istantanea dell’urgenza espressiva di una generazione che si trova sempre più priva di posti dove esprimersi.”   “Crediamo fermamente – afferma Gianmarco Caselli, direttore artistico del Festival – che sia necessario e doveroso dare spazi ai ragazzi per esprimere artisticamente il momento storico così complesso e inquietante in cui stiamo vivendo.” In mostra ci saranno le opere di: Lisa Alfani , Sara Bacci , Elena Bargellini ,Giulia Biasci , Maria Virginia Bonini , Melissa Bruno, Dario Cortopassi, Chiara Cugia, Maximiliano Fierro, Erika Ghilardi, Duccio Lazzareschi, Benedetta Lo Bianco, Giulia Matteucci , Ambra Meschi , Ismael Messaoud , Amy Pandolfi, Maria Snegiana Puglia, Gaia Querchi , Alessia Rosellini, Loreline Silvi. L’esposizione sarà visitabile al museo Athena di via Carlo Piaggia a Capannori a partire dalle ore 17.15 e verrà aperta da una breve performance di CRP Collettivo Rivoluzionario Protosonico, la costola musicale del Festival, con la partecipazione di Elena Tonelli e Elettra. L’ingresso è libero.     Il Capannori Underground Festival è organizzato da V.A.G.A. (Visioni Atipiche Giovani Artisti) con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e del Comune di Capannori in collaborazione con ARCI Lucca e Versilia , Museo Athena, Artemisia, Sistema Museale Territoriale della Provincia di Lucca, Anffas, Il Restauro, Effeottica Lucca e la mediapartenrship di La Settima Base, Riserva Indie e Radio Sankara.

Siberia compie 40 anni – I Diaframma lo celebrano con un tour di più di trenta date

– di Gianmarco Caselli – I Diaframma di Federico Fiumani hanno infiammato il Caracol di Pisa il 15 novembre scorso con una serata del tour celebrativo dei 40 anni di “Siberia”, il primo album della storica band fiorentina. Un tour agli inizi – quella del Caracol era solo la terza data – che ha in calendario più di trenta date e che si concluderà ad aprile del 2025. Era giusto e doveroso celebrare l’anniversario di un album fondamentale per la new wave italiana, classificato al settimo posto dei “100 dischi italiani più belli di sempre”, secondo la rivista Rolling Stone Italia. Prima del concerto abbiamo scambiato alcune veloci battute con un disponibilissimo Fiumani. Sei contento di questo tour? La risposta da parte del pubblico è positiva? Sì, c’è sempre bisogno del riscontro con il pubblico e già in queste primissime date vedo una bella risposta, una forte energia. Come senti Siberia oggi? Noi siamo stati espressione di un periodo particolare, gli anni ’80. È una musica che rispecchia quegli anni. Non credi che l’ondata revival anni ’80 di questo periodo sia da collegare agli eventi storici e sociali attuali  che in parte sono molto simili ad allora? In parte, certamente. Penso che non sia un caso che I Cure siano tornati con un album che si ricollega a Disintegration e che sia balzato in cima alle classifiche. Lo hai ascoltato? Ho fatto un ascolto e devo ascoltarlo ancora bene ma mi pare molto bello. Hai qualcuno in particolare che credi interpreti musicalmente questo periodo che stiamo vivendo? Credo che la realtà musicale giovanile lo stia interpretando molto bene. Dovendo indicare qualcuno in particolare, sicuramente Blixa Bargeld e Teho Teardo, anche se non rientrano fra i giovanissimi. Fiumani è in ottima forma, con capelli verdi e chitarra dello stesso colore (“L’ho comprata perché fa pandan con i capelli”, dice scherzando con il pubblico fra una canzone e l’altra), ripercorre durante la serata i brani di Siberia ma ovviamente anche degli altri album. E quello che ne viene fuori è un concerto immersivo nel sound dei Diaframma con una sala piena e entusiasta che non ha mai smesso di ballare. Il sound è inevitabilmente quello degli anni ’80, le musiche sono quelle, ma tutto appare davvero attuale, assolutamente non datato. La voce e la chitarra di Fiumani, affiancato da giovani e validi musicisti, sono immediate, energiche e sprigionano una “gioia improvvisa” che coinvolge inevitabilmente il pubblico. Alla fine del concerto Fiumani si è prestato per fare foto con i fan e firmare autografi. A questo proposito vi consigliamo di comprare il vinile di “Siberia” in edizione speciale per l’anniversario: vinile rosa + Cd contenente “Siberia e “Live in Modena ’85” + poster 50×70 del Siberia Tour ’85 e un Maxi Booklet di 16 pagine.      

La Bandabardò apre il Capannori Underground Festival

Tutto esaurito per la serata di apertura dell’edizione 2024 del Capannori Underground Festival con  Finaz, Nuto e Don Bachi della Bandabardò. “Una band che non ha certo bisogno di presentazioni – afferma Gianmarco Caselli, direttore artistico del Festival – e che negli anni ha fatto e fa ballare nelle piazze migliaia di giovani intrecciando voglia di stare insieme, di divertirsi, con valori e ideali per una società migliore.” La Bandabardò ha una storia che è quasi una fiaba: si è fatta le ossa macinando concerti su concerti, i componenti del gruppo sono quasi una famiglia che ha viaggiato insieme per anni sul furgone spostandosi da un palco all’altro ed è cresciuta e si è fatta notare proprio grazie ai suoi numerosi live prima ancora che sul mercato discografico. È il rapporto con i fan che,  alimentandosi concerto dopo concerto, ha decretato la solidità di un gruppo che con la piazza, con il pubblico, è stato fin dall’inizio legato in un sodalizio quasi immediato e spontaneo. Una band che ha proposto una musica nuova, gioiosa, fresca e viva. La Bandabardò non si è fermata nonostante la triste scomparsa di Erriquez, lo storico cantante del gruppo, una scomparsa improvvisa che ha sconvolto il panorama musicale italiano. La Bandabardò però ha proseguito grazie anche all’amico Cisco Bellotti, e noi l’abbiamo seguita in questa loro nuova storia come vi abbiamo raccontato anche l’estate scorsa nel nostro servizio.     Quello del Capannori Underground Festival evento imperdibile per tutti gli appassionati della band: durante l’incontro che si terrà al Polo Culturale Artemisia (Tassignano-Capannori) i tre componenti del gruppo presenteranno il libro “Se mi rilasso collasso” edito da Baldini e Castoldi. E per l’evento sarà presente, ad affiancare Gianmarco Caselli, direttore artistico del Festival, anche Antonio Aiazzi, lo storico tastierista dei Litfiba che l’anno scorso era presente come ospite insieme a Gianni Maroccolo.   Nel libro sono raccontati i trenta anni di storia della  band nata nel ’93, in anni gloriosi per la musica alternativa italiana. Così la raccontano gli stessi membri della Bandabardò: “Trent’anni di storia, la nostra, fatta di percorsi quasi mai semplici e spesso lontani dalle strade maestre, una storia che si intreccia con gli ultimi trent’anni di questo Paese meraviglioso e contraddittorio e che ci rammenta cosa sono state la musica, la politica, la vita in tour, la gavetta, la discografia e come tutte queste cose sono cambiate con noi, accanto a noi.”   L’ingresso è libero su prenotazione fino ad esaurimento posti scrivendo una mail a associazionevaga@gmail.com. Lo staff invita a prenotare e a mettersi in lista d’attesa nonostante l’evento sia già sold out. Il Capannori Underground Festival è organizzato da V.A.G.A. (Visioni Atipiche Giovani Artisti) con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e del Comune di Capannori in collaborazione con ARCI LUCCA E VERSILIA, Museo Athena, Artemisia, Sistema Museale Territoriale della Provincia di Lucca, Anffas, Il Restauro, Effeottica Lucca e la mediapartenrship di La Settima Base, Riserva Indie e Radio Sankara.

Quando Zio Paperone ispirò Giacomo Puccini…

– di Gianmarco Caselli – Abbiamo letto “Zio Paperone e l’opera inattesa”, la storia scritta da Alessandro Sisti e disegnata da Simona Capovilla sul Topolino n. 3597 come omaggio per il centesimo anniversario di Giacomo Puccini, senza ombra di dubbio l’ultimo grande operista della storia della musica. Mercoledì 30 ottobre la Fondazione “Simonetta Puccini per Giacomo Puccini”, in collaborazione con Panini Comics, ha organizzato un evento speciale all’Auditorium Puccini di Torre del Lago (Viareggio), con le tavole a fumetti della storia in concomitanza con il Lucca Comics & Games. La storia inizialmente sembra incentrata sulla ricerca della partitura del finale di Turandot, l’ultima opera di Puccini appunto rimasta incompiuta. Ma si tratta di un inganno di Zio Paperone per sviare Rockerduck: in realtà il plurimiliardario cerca una fotografia di Paperopoli scattata proprio da Puccini. Una storia breve in cui emergono tanti aspetti del noto operista come la sua passione per le innovazioni tecnologiche. La fotografia era una di queste: ve l’abbiamo raccontata in un altro nostro servizio relativo alla mostra “Qual occhio al mondo”. Puccini fotografo  realizzata dalla Fondazione Centro studi Licia e Carlo Ludovico Ragghianti di Lucca in collaborazione con la Fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini di Torre del Lago e il Centro studi Giacomo Puccini di Lucca. La storia di Sisti si conclude con un flashback: il lettore viene portato indietro nel tempo, quando il compositore lucchese si incontrò con Zio Paperone e fu proprio il ricco papero a ispirare Puccini con una sua storia amorosa ai tempi del Klondike da cui prenderà vita La fanciulla del West.     Abbiamo intervistato Alessandro Sisti che ci ha fornito, a corredo di questo servizio, le immagini delle tavole della storia prima di essere colorate e prima che fossero scritti i testi dentro le nuvolette.   Quale è stato il tuo primo contatto con Puccini?   Francamente è passato troppo tempo perché riesca a ricordarmene. In casa la musica era apprezzata e mia madre suonava discretamente il pianoforte, ma io le chiedevo soprattutto brani come Per Elisa di Beethoven, o la Marcia Turca di Mozart, per i quali da piccolo andavo matto, mentre di Puccini il mio preferito era il Coro a bocca chiusa. Al di là delle melodie, ho memorie più nitide di quando iniziai a farmi un’idea di Puccini come personaggio. Risalgono a quand’ero ormai già alle medie e allo sceneggiato Rai interpretato da Alberto Lionello, la cui sigla iniziale mi pare fosse proprio (con mia grande soddisfazione d’allora) quel coro della Butterfly cui accennavo prima.   – Conoscevi la sua passione per le novità tecnologiche o l’hai scoperta studiando il modo di realizzare  questa storia?   La conoscevo, come credo la maggior parte del pubblico, segnatamente per ciò che riguarda la velocità e i motori, o l’innovazione applicata alla diffusione della musica, grazie alla quale è stato fra i primi a veicolare le proprie opere incise su disco. Confesso invece che ignoravo il suo amore per la fotografia. A raccontarmelo è stata Patrizia Mavilla, la direttrice della Fondazione Simonetta Puccini, regalandomi un’informazione preziosa che è divenuta la chiave di volta dell’avventura pubblicata su Topolino.   – Hai un’opera preferita di Puccini?   Potrei dirvene una… e dopo me ne verrebbe in mente un’altra e poi un’altra ancora. La verità è che le preferisco tutte, musicalmente e ancor più per il fatto che Puccini – lo dichiarò lui stesso – con le note riteneva di scrivere teatro e diceva di non saper fare musica senza una storia. Per chi di storie vive, come nel mio piccolo faccio io, è un’affermazione esaltante.     – Molto carino il finale in cui a Puccini viene l’idea di comporre La fanciulla del West ispirandosi a un’avventura amorosa nel Klondike di Zio Paperone. Ci dici come ti è venuta in mente?   È nata ragionando sul fatto che gli anni di Puccini e quelli del giovane Zio Paperone, intento a porre le basi della sua fortuna come cercatore d’oro, riportano alla medesima epoca. Approfondendo quell’intuizione ho trovato una miniera di corrispondenze. I cercatori erano spesso appassionati di musica, una delle poche opportunità di sollievo e d’elevazione nelle loro esistenze, e ne La fanciulla del West molta dell’azione scenica si svolge alla Polka, il saloon della protagonista Minnie, non diverso da quello della Bolla d’Oro di Doretta Doremì frequentato da Paperone. Eccetto il dettaglio che lo sfondo de La fanciulla è quello della Corsa all’Oro californiana anziché quella del Klondike, i conti tornavano, tanto più – tengo a sottolinearlo – considerando che a unirli non è una generica vicenda sentimentale del papero più ricco del mondo, bensì il suo indimenticato e forse unico amore, rievocato addirittura nel 1953 dal suo creatore Carl Barks. Non c’è dubbio che se mai Zio Paperone ne avesse parlato a Puccini, l’avrebbe fatto con accenti adatti a ispirarlo.     – Non è certamente facile ideare una storia originale su Puccini e i paperi. Da quali spunti sei partito?   Per essere sincero è stato più semplice di quanto possa sembrare. Come dicevo, gli ingredienti fondamentali erano già tutti nella realtà storica e non avevo che da ricucinarli in una prospettiva disneyana. La scelta era come servirli: contestualizzandoli integralmente nel passato come ho fatto in altre occasioni, oppure al presente? A farmi decidere sono stati gli scenari di Torre del Lago Puccini e della residenza del compositore, che oggi è la villa-museo a lui dedicata, che mi sono sembrati subito la risorsa più desiderabile per una narrazione anche visivamente ricca e diversa, nella sicurezza che la mia co-autrice Simona Capovilla, che ha disegnato la storia, avrebbe saputo sfruttarli nel modo migliore.   – Non è stata la vostra prima collaborazione, giusto?   Sì, abbiamo lavorato insieme su diverse altre storie. Per me (e spero anche per lei) sono state tutte esperienze gratificanti, perché Simona è un’artista di rango, con un talento per la recitazione dei personaggi e uno splendido senso della scena. In più l’ho scoperta essere anche una musicista e una pucciniana convinta, tanto che

Con Songs Of A Lost World i Cure ritrovano il suono perduto

– di Gianmarco Caselli –   Finalmente è arrivato. Dopo ben sedici anni e annunci disattesi sull’uscita di uno o addirittura più album, il primo novembre i fan di The Cure hanno potuto ascoltare il nuovo lavoro della band, Songs of a Lost World. L’attesa è stata lunghissima e, quando è stato chiaro che stavolta l’album sarebbe veramente uscito, piena di grandi aspettative. Aspettative alte, altissime, soprattutto dopo che è stato diffuso Alone, il primo singolo, che ha fatto sognare ai fan un altro lavoro alla pari di Disintegration (1989), forse l’album capolavoro della band. Lo stesso Robert Smith vi ha fatto riferimento affermando che voleva ricreare un’atmosfera come in Pornography (1982) e Disintegration.   Diciamo subito che il confronto comunque non regge, Disintegration è e resta irraggiungibile, ma la qualità di Songs of a Lost World cresce ad ogni ascolto e si riallaccia all’album del 1989 per tanti versi: per i testi, per le sonorità e per l’atmosfera generale, e di certo è un gran bell’album: il nostro voto è 9. Consigliamo un ascolto in cuffia o a volume alto con un buon impianto per godere appieno non solo della voce – notevole per l’età – di Smith in ottima forma, ma anche della raffinata ricerca dei suoni che costellano questo album. Vi perdereste degli elementi che fanno comprendere quanto questa opera sia veramente ricercata e complessa, perfetta nel creare un amalgama sonoro che ci avvolga nelle sue spire.   Se si considera poi che dopo le punte toccate dalla band con il già nominato Disintegration (1989) e Wish (1992) gli album successivi (su tutti Wild mood swings del 1996) non sono stati da ricordare, con l’eccezione di Bloodflowers (2000), Songs of a Lost World è una vera e propria boccata di ossigeno per i fan. Ad affiancare Robert Smith sono il fedele Simon Gallup al basso, Roger O’Donnel alle tastiere, Reeves Gabrels alla chitarra e Jason Copper alla batteria.   Songs of a Lost World è per certi versi una summa matura delle punte toccate dalla band fra fine anni ’80 e inizio anni ’90 che ci immerge nel decadentismo imperante dei nostri tempi. Robert Smith e soci hanno infatti voluto non solo riprendere quelle sonorità, ma anche attualizzarle e realizzare un album sincero, senza strizzare l’occhio alle dinamiche del marketing con inserimenti di brani facili e commerciali: si è capito subito dal primo ascolto della intro strumentale del brano di apertura Alone, lunghissima per i canoni musicali del nostro tempo. Proseguendo con l’ascolto godetevi l’apertura armonica di And nothing is forever e lasciatevi cullare da A fragile thing, brano che difficilmente vi toglierete dalla testa. Warsong e Drone:Nodrone invece ci portano improvvisamente in atmosfere più dure che ricordano quelle di Wish. È I can never say goodbye che di nuovo ci proietta nella dimensione onirica prevalente dell’album, mentre la successiva All I ever am ci coinvolge subito con una base ritmica trascinante che  fa venire voglia di non uscire mai da questo disco di cui ci sembra di far parte. Chiude l’album una epica Endsong di ben dieci minuti, devastante per intensità e che chiude il cerchio aperto con Alone.   Le sonorità sono dense ma fresche, non danno assolutamente l’idea di ricalcare qualcosa di già fatto, e danno all’album energia e coerenza. Tutti i brani sono notevolmente ispirati (di mezzo ci sono la perdita dei genitori, del fratello e l’incombere dell’età) e si muovono in atmosfere dark rischiarate da luce lunare che rende il tutto sognante, non opprimente. Una luce lunare rischiara le tenebre dei testi: il disco si doveva intitolare Live from The Moon  e Endsong è stata scritta anche pensando ai cinquanta anni dello sbarco dell’uomo sulla luna. And I’m outside in the dark / Staring at the blood red moon, sono i primi versi del brano conclusivo dell’album.   Songs of a Lost World è un album armonico, non ci sono brani che stridono, tutto fila via con un’atmosfera irreale. I Cure hanno ricreato un mondo sonoro musicale perduto a cui essi in primis avevano dato un sound unico attualizzandolo con uno nuovo che riflette il mondo attuale.   Difficile scegliere quali edizioni comprare: oltre alle versioni standard si può optare per la doppia cassetta che oltre all’album “normale” offre i brani esclusivamente strumentali, o per il triplo cd che, oltre al cd standard propone un dvd blu ray e uno con le versioni strumentali; se andiamo sul vinile possiamo scegliere il doppio vinile half-speed da 180 gr oppure quello bianco, sempre da 180 gr, o quello color marmo. A voi l’ardua scelta. Per la cronaca Smith ha parlato anche di un nuovo album in lavorazione virtualmente finito, e che potrebbe arrivare anche un terzo disco. Ma intanto godiamoci questo.      

CCCP – Tour alla conclusione: cosa accadrà dopo?

– di Gianmarco Caselli –   Con la data del 27 agosto al Festival Settembre Prato è Spettacolo, organizzato da Fonderia Cultart in collaborazione con il Comune di Prato, rimane un’ultima data – a Mantova il 29 agosto – per il tour dei CCCP Fedeli alla Linea: “In fedeltà la linea c’è.”. Un tour che abbiamo seguito fin dalla sua prima epica data il 21 maggio a Bologna con quasi novemila persone ad assistere allo storico ritorno sulle piazze italiane della band simbolo del punk italiano. Una reunion preceduta dall’imponente mostra ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia sulla storia del gruppo.   Il ritorno dei CCCP, che si erano sciolti nel 1990 con quattro album all’attivo che hanno segnato indelebilmente la storia del punk italiano, è stato tanto atteso quanto incredibile.     Il tour ha avuto un successo strepitoso, e forse è andato anche oltre le previsioni del gruppo stesso, accompagnato da un merchandising notevole, nonché dalla pubblicazione di un nuovo album, Altro che nuovo nuovo: il primo live dei CCCP risalente al 1983. Quello che sicuramente ha funzionato è stato vedere sui palchi un gruppo vivo, non l’imitazione di se stesso: chi è stato ad almeno una data del tour, ha visto i CCCP, con Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur, affiatati e coinvolgenti come se non ci fosse stata una pausa lunga più di trenta anni.   La storia dopo i CCCP la conosciamo tutti: nell’ultimo disco del 1990, Epica Etica Etnica Pathos erano entrati nella formazione alcuni ex Litfiba come Gianni Maroccolo e lo storico batterista Ringo De Palma (per la cronaca sarà l’unico album dei CCCP con una batteria vera poi, ultimato l’album, Ringo purtroppo lascerà la nostra valle di lacrime) e da questa formazione “allargata” con ben otto musicisti, sciolti i CCCP, nacquero i CSI – Consorzio Suonatori Indipendenti. Con la clamorosa fuoriuscita di Zamboni e lo scioglimento dei CSI, nasceranno i PGR Per Grazia Ricevuta e, in un lancinante e inesorabile gioco al massacro di sottrazione di componenti dalla formazione, i PG3R costituiti solo da Ferretti, Maroccolo e Giorgio Canali.     In ogni caso, i CSI non erano i CCCP: questi non esistevano più dal 3 ottobre del 1990, data della riunificazione tedesca.  Un’assenza che sembrava definitiva, durata più di trenta anni e durante la quale, finiti anche i CSI e i PGR, soprattutto Zamboni e Ferretti hanno proseguito con le loro carriere soliste. A questo proposito, se vi piacciono le sonorità alla CSI, se non lo avete ancora fatto ascoltate La mia patria attuale, album solista di Zamboni del 2022, e rimarrete piacevolmente sorpresi. Non mancano le polemiche ovviamente, per i prezzi dei biglietti e del merchandising, ma del resto i CCCP sono sempre stati in grado di sollevarle, a partire da quando firmarono il contratto con la Virgin che fu sicuramente determinante nel proiettare il gruppo in un’orbita meno di nicchia ma che – allo stesso tempo – sollevava malumori fra i fan duri e puri della scena alternativa. Per non parlare, ovviamente, delle prese di posizione politiche e religiose di Ferretti. Ma del resto il punk è anche questo, provocazione: basti pensare ai Sex Pistols con Sid Vicious che ostentava la svastica, al contratto con la EMI, al Filthy Lucre Tour (il tour reunion dichiaratamente fatto a scopo di lucro). E comunque tutto ciò ha permesso di far conoscere al grande pubblico un gruppo, i CCCP, con una musica completamente nuova per il panorama musicale italiano, e unico anche per i testi e le performance di Annarella e Fatur. Sul palco la band per il tour ideato da Musiche Metropolitane è stata accompagnata da Luca Rossi, Simone Filippi, Ezio Bonicelli, Simone Beneventi e Gabriele Genta   Adesso manca la data di Mantova per chiudere il tour.   La domanda fatidica è cosa accadrà dopo.   Se da una parte molti immaginano che venga pubblicato un disco live testimonianza di questo tour, quello che tutti i fan sperano veramente è che la band non scompaia nuovamente (e definitivamente) e che riprenda la propria attività realizzando magari un nuovo album di inediti. Una speranza forse esagerata, ma a questo punto tutto è possibile.    

Yo Yo Mundi

La musica collettiva e resistente degli Yo Yo Mundi

– di Chiara Venturini –   La musica collettiva e resistente degli Yo Yo Mundi  Intervista con Paolo Enrico Archetti Maestri   Yo Yo Mundi: uno dei tanti gruppi emersi nei primi anni ‘90, gli ultimi momenti di gloria della musica alternativa italiana; nati in un periodo in cui appunto tutto sembrava possibile e la creatività sprizzava da tutte le parti, gli Yo Yo Mundi proseguono tuttora la loro attività musicale con tenacia e passione, tra collettivismo e impegno. Abbiamo intervistato Paolo Enrico Archetti Maestri, il cantante, chitarrista e portavoce del gruppo. Gli Yo Yo Mundi, una realtà degli anni ‘90 che va avanti con continuità senza mai fermarsi. Te lo saresti mai aspettato? Lo abbiamo voluto fortemente ed è così ancora oggi, anzi oggi più che mai! Quando io e gli altri componenti degli Yo Yo Mundi ci siamo messi insieme, dissi loro che il mio sogno era sempre stato quello di scrivere canzoni e di suonare da professionista (avevo già sfiorato questa possibilità con due band). Il gruppo nasce con  Eugenio Merico (batterista), praticamente subito abbiamo coinvolto Andrea Cavalieri (bassista), e dopo un anno di prove e composizione nella band è entrato Fabio Martino (fisarmonica e tastiere), all’epoca quindicenne. Questa è la formazione originaria degli Yo Yo, il nostro compleanno cade il 5 marzo 1989, in occasione del nostro primo live in quattro. Abbiamo subito avuto la percezione che poteva funzionare, perché noi quattro funzionavamo prima di tutto come persone e poi anche come musicisti, ognuno con la propria peculiarità, ma con la grande attitudine di aiutarci, sempre. E poi perché avevamo gli occhi che brillavano quando si parlava di musica. Infine ci voleva coraggio, spensieratezza, tenacia, determinazione e tanta voglia di emergere e a noi non mancava nulla di tutto questo. Ci siamo fatti i primi anni ‘90, con dei semplici demo e con quelli abbiamo ottenuto recensioni su diversi giornali nazionali (all’epoca c’erano tanti giornali specializzati e quasi tutti avevano uno spazio dedicato alla musica indipendente e ai demotape). E poi suonavamo ovunque senza avere neppure un disco, ma solo una grande intraprendenza e parecchia faccia tosta. Ed Eugenio già all’epoca si dimostrava abilissimo a trovare date e organizzare le continue trasferte.   Erano altri tempi, altre situazioni, contesti molto diversi da quelli in cui viviamo oggi. Erano situazioni in cui ci si doveva adattare a tutte le cose più pazzesche e bizzarre ma allo stesso tempo creative perché ci permettevano di crescere e diventare più abili e potenti ogni volta che riuscivamo a suonare da qualche parte (facevamo anche tutti i concorsi possibili vincendone diversi, era molto istruttivo parteciparvi perché spesso c’erano impianti belli e un pubblico vergine, non quello delle solite birrerie, c’era, all’epoca molta curiosità e molta disponibilità da parte del pubblico). A proposito di situazioni bizzarre… A volte non c’era neppure il palco e ricordiamo certi impianti audio luci… davvero spaventosi!! A un certo punto avevamo un po’ esaurito birrerie e pub in cui suonare e non ci piacevano neppure più tanto. Ci mancava qualcosa, allora abbiamo cominciato a suonare in strada e siamo arrivati anche in Francia, prima la Costa Azzurra e poi addirittura quindici giorni a Parigi, mantenendoci quasi completamente con quello che ci offrivano per strada mentre suonavamo le nostre canzoni e quelle di Paolo Conte (che anni dopo definì “selvatica” la nostra musica!). Quando siamo tornati ci siamo guadagnati dei palchi più importanti. Non avevamo letteralmente più paura di niente. Nel ‘91 abbiamo realizzato un album completamente autoprodotto intitolato “Nuovi oggetti di culto”, un disco che non è mai uscito perché noi volevamo fortemente essere prodotti da Gianni Maroccolo (Litfiba, CSI) e riuscimmo grazie a un amico giornalista, Marco Baratti, a incontrarlo e nacque immediatamente una simpatia, oltre a stima reciproca. Lui preferiva, giustamente, lavorare da zero con noi e le registrazioni acerbe di “Nuovi oggetti di culto” diventarono vecchie e inutili in un battibaleno. Con lui abbiamo realizzato prima un demo con alcuni inediti e poi, finalmente, l’anno successivo, cinque anni dopo la nascita del gruppo abbiamo registrato e dato alle stampe il primo album ufficiale del gruppo.  Quanto sono rimasti gli Yo Yo Mundi di un tempo? Quanto e come sono cambiati? I Litfiba dicevano: “Siamo cinque dita della stessa mano che sul palco si trasformano in pugno.” Noi eravamo in quattro e abbiamo voluto assolutamente trovare il quinto Yo Yo. Il desiderio si è materializzato nella persona di Fabrizio Barale (chitarra), che era l’assistente di studio dove registrammo l’album “Percorsi di musica sghemba” (Columbia – Sony, 1996). Finalmente anche noi potevamo diventare un pugno chiuso! Questa formazione a cinque è durata fino al 2013, poi Fabri cominciò a essere meno presente perché aveva cominciato a fare tour con l’amico Ivano Fossati (che fu nostro ospite ne “L’Impazienza”, 1999 e scrisse per noi la canzone “Il sud e il nord” e noi Yo Yo fummo ospiti nel suo album “La disciplina della terra”). Poi anche Fabio è andato a vivere in Svizzera (suona con i Vad Vuc, grande band ticinese!), la distanza e gli impegni, lavorativi e familiari, hanno  limitato assai la frequentazione artistica e così nel 2013 ci siamo trasformati in un collettivo. Fabio inizialmente è stato affiancato e poi sostituito da Chiara Giacobbe, violinista e cantante con noi da undici anni. A seguire abbiamo ospitato Simone Lombardo, suonatore di strumenti etnici che è a tutti gli effetti uno Yo Yo ad honorem. Così come Dario Mecca Aleina il nostro ingegnere del suono e Daniela Tusa l’attrice che collabora con noi da quasi dieci anni o ancora Ivano A. Antonazzo che non suona, ma è un artista che si occupa delle copertine degli album, dei video, delle fotografie.   Ci siamo trasformati in un collettivo di circa una decina di persone che come una fisarmonica si apre e si chiude a seconda delle esigenze del momento e dei progetti. In qualche modo abbiamo ovviato così ad uno scioglimento che non è mai avvenuto, ci siamo tenuti insieme con un filo tanto sottile, quanto resistente.