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Yo Yo Mundi

La musica collettiva e resistente degli Yo Yo Mundi

– di Chiara Venturini –   La musica collettiva e resistente degli Yo Yo Mundi  Intervista con Paolo Enrico Archetti Maestri   Yo Yo Mundi: uno dei tanti gruppi emersi nei primi anni ‘90, gli ultimi momenti di gloria della musica alternativa italiana; nati in un periodo in cui appunto tutto sembrava possibile e la creatività sprizzava da tutte le parti, gli Yo Yo Mundi proseguono tuttora la loro attività musicale con tenacia e passione, tra collettivismo e impegno. Abbiamo intervistato Paolo Enrico Archetti Maestri, il cantante, chitarrista e portavoce del gruppo. Gli Yo Yo Mundi, una realtà degli anni ‘90 che va avanti con continuità senza mai fermarsi. Te lo saresti mai aspettato? Lo abbiamo voluto fortemente ed è così ancora oggi, anzi oggi più che mai! Quando io e gli altri componenti degli Yo Yo Mundi ci siamo messi insieme, dissi loro che il mio sogno era sempre stato quello di scrivere canzoni e di suonare da professionista (avevo già sfiorato questa possibilità con due band). Il gruppo nasce con  Eugenio Merico (batterista), praticamente subito abbiamo coinvolto Andrea Cavalieri (bassista), e dopo un anno di prove e composizione nella band è entrato Fabio Martino (fisarmonica e tastiere), all’epoca quindicenne. Questa è la formazione originaria degli Yo Yo, il nostro compleanno cade il 5 marzo 1989, in occasione del nostro primo live in quattro. Abbiamo subito avuto la percezione che poteva funzionare, perché noi quattro funzionavamo prima di tutto come persone e poi anche come musicisti, ognuno con la propria peculiarità, ma con la grande attitudine di aiutarci, sempre. E poi perché avevamo gli occhi che brillavano quando si parlava di musica. Infine ci voleva coraggio, spensieratezza, tenacia, determinazione e tanta voglia di emergere e a noi non mancava nulla di tutto questo. Ci siamo fatti i primi anni ‘90, con dei semplici demo e con quelli abbiamo ottenuto recensioni su diversi giornali nazionali (all’epoca c’erano tanti giornali specializzati e quasi tutti avevano uno spazio dedicato alla musica indipendente e ai demotape). E poi suonavamo ovunque senza avere neppure un disco, ma solo una grande intraprendenza e parecchia faccia tosta. Ed Eugenio già all’epoca si dimostrava abilissimo a trovare date e organizzare le continue trasferte.   Erano altri tempi, altre situazioni, contesti molto diversi da quelli in cui viviamo oggi. Erano situazioni in cui ci si doveva adattare a tutte le cose più pazzesche e bizzarre ma allo stesso tempo creative perché ci permettevano di crescere e diventare più abili e potenti ogni volta che riuscivamo a suonare da qualche parte (facevamo anche tutti i concorsi possibili vincendone diversi, era molto istruttivo parteciparvi perché spesso c’erano impianti belli e un pubblico vergine, non quello delle solite birrerie, c’era, all’epoca molta curiosità e molta disponibilità da parte del pubblico). A proposito di situazioni bizzarre… A volte non c’era neppure il palco e ricordiamo certi impianti audio luci… davvero spaventosi!! A un certo punto avevamo un po’ esaurito birrerie e pub in cui suonare e non ci piacevano neppure più tanto. Ci mancava qualcosa, allora abbiamo cominciato a suonare in strada e siamo arrivati anche in Francia, prima la Costa Azzurra e poi addirittura quindici giorni a Parigi, mantenendoci quasi completamente con quello che ci offrivano per strada mentre suonavamo le nostre canzoni e quelle di Paolo Conte (che anni dopo definì “selvatica” la nostra musica!). Quando siamo tornati ci siamo guadagnati dei palchi più importanti. Non avevamo letteralmente più paura di niente. Nel ‘91 abbiamo realizzato un album completamente autoprodotto intitolato “Nuovi oggetti di culto”, un disco che non è mai uscito perché noi volevamo fortemente essere prodotti da Gianni Maroccolo (Litfiba, CSI) e riuscimmo grazie a un amico giornalista, Marco Baratti, a incontrarlo e nacque immediatamente una simpatia, oltre a stima reciproca. Lui preferiva, giustamente, lavorare da zero con noi e le registrazioni acerbe di “Nuovi oggetti di culto” diventarono vecchie e inutili in un battibaleno. Con lui abbiamo realizzato prima un demo con alcuni inediti e poi, finalmente, l’anno successivo, cinque anni dopo la nascita del gruppo abbiamo registrato e dato alle stampe il primo album ufficiale del gruppo.  Quanto sono rimasti gli Yo Yo Mundi di un tempo? Quanto e come sono cambiati? I Litfiba dicevano: “Siamo cinque dita della stessa mano che sul palco si trasformano in pugno.” Noi eravamo in quattro e abbiamo voluto assolutamente trovare il quinto Yo Yo. Il desiderio si è materializzato nella persona di Fabrizio Barale (chitarra), che era l’assistente di studio dove registrammo l’album “Percorsi di musica sghemba” (Columbia – Sony, 1996). Finalmente anche noi potevamo diventare un pugno chiuso! Questa formazione a cinque è durata fino al 2013, poi Fabri cominciò a essere meno presente perché aveva cominciato a fare tour con l’amico Ivano Fossati (che fu nostro ospite ne “L’Impazienza”, 1999 e scrisse per noi la canzone “Il sud e il nord” e noi Yo Yo fummo ospiti nel suo album “La disciplina della terra”). Poi anche Fabio è andato a vivere in Svizzera (suona con i Vad Vuc, grande band ticinese!), la distanza e gli impegni, lavorativi e familiari, hanno  limitato assai la frequentazione artistica e così nel 2013 ci siamo trasformati in un collettivo. Fabio inizialmente è stato affiancato e poi sostituito da Chiara Giacobbe, violinista e cantante con noi da undici anni. A seguire abbiamo ospitato Simone Lombardo, suonatore di strumenti etnici che è a tutti gli effetti uno Yo Yo ad honorem. Così come Dario Mecca Aleina il nostro ingegnere del suono e Daniela Tusa l’attrice che collabora con noi da quasi dieci anni o ancora Ivano A. Antonazzo che non suona, ma è un artista che si occupa delle copertine degli album, dei video, delle fotografie.   Ci siamo trasformati in un collettivo di circa una decina di persone che come una fisarmonica si apre e si chiude a seconda delle esigenze del momento e dei progetti. In qualche modo abbiamo ovviato così ad uno scioglimento che non è mai avvenuto, ci siamo tenuti insieme con un filo tanto sottile, quanto resistente.

I CCCP infiammano Bologna

– di Gianmarco Caselli – I CCCP Fedeli alla linea di nuovo insieme sul palco in Piazza Maggiore a Bologna. Chi era presente in quella piazza martedì 21 maggio sa di avere partecipato a uno spettacolo unico, indimenticabile e potrà dire un giorno: io c’ero. Una piazza gremita all’inverosimile, quasi novemila persone, accorse per assistere a un evento a dir poco storico per la musica italiana. Non si tratta infatti “solo” della riunione del gruppo simbolo del punk italiano, ma anche della prima data del tour nella penisola e, cosa assolutamente non secondaria, si è tenuto a Bologna (cosa non indifferente essendo i CCCP un gruppo punk emiliano). Un’emozione che lascia quasi sconvolti pervade il pubblico quando sul palco salgono i quattro CCCP: Massimo Zamboni, Giovanni Lindo Ferretti, Danilo Fatur, Annarella Giudici. Difficile dire se il tempo si è fermato o ha ripreso a muoversi. Una sensazione ovviamente ancor più forte di quella che abbiamo potuto provare visitando la mostra “Felicitazioni” a Reggio Emilia. Di certo, per chi ha minimo una quarantina di anni, si tratta di una sensazione strana, stranissima. Da un lato è ovviamente fantastico, soprattutto per chi è cresciuto con la musica dei CCCP e magari li ha visti suonare, rivederli insieme, rivivere quelle emozioni. Però è anche straniante soprattutto sentire certi testi in un contesto storico culturale completamente diverso. Quando la band attacca con “Depressione caspica” il pubblico realizza che tutto è vero, i CCCP stanno suonando di nuovo insieme. E dal secondo brano, “Rozzemilia”, si scatena l’inferno con un pogo che non si placa quasi mai dall’inizio alla fine del concerto.     Ferretti si è sbarbato, non ci sono più i baffoni con cui lo vedevamo negli ultimi tempi e questo particolare ci fa credere ancor più di essere tornati ai vecchi tempi; canta per la maggior parte del concerto con le mani in tasca, spesso con gli occhi chiusi: la tensione per un evento del genere è palpabile, sembra sciogliersi con mezzi sorrisi solo quando, un paio di volte, Annarella va da lui per fargli una carezza o per offrirgli una sigaretta. Anche Fatur a un certo punto gli dà una pacca. Zamboni è più a suo agio, si diverte sul palco e si vede; quando poi prende il microfono e si mette a cantare Kebabträume dei DAF saltellando, esprime tutta la sua voglia e la sua felicità di avere di nuovo i CCCP riuniti. Il sorriso è costantemente stampato sulla sua faccia.La chitarra di Zamboni è perfetta, il sound è quello che i fan vogliono, quello originario della band, anche quando le musiche vengono presentate in vesti nuove, in rielaborazioni. Annarella cambia più volte personaggio, ora vestita in un burka, ora avvolta nel tricolore italiano, ora con la bandiera del PCI, e corre imperturbabile alternando il tutto a brevi letture. E che brividi sentirla introdurre, urlando, “Emilia paranoica”; che emozione lancinante quando tira il suo grido a “bombardieri su Beirut.” Fatur è semplicemente meraviglioso:  sfodera il suo fisico che non è propriamente scultoreo come una volta, e interagisce con il pubblico anche con espressioni facciali che solo quelli nelle prime file come noi – nonostante il pogo allucinante – hanno avuto la fortuna di ammirare nella sua interezza.     Ferretti si rivolge direttamente al pubblico solo nel finale quando esprime, a nome del gruppo, il proprio piacere di essere lì, con una sua tipica, breve risata rilassata e liberatoria. Sono quasi una trentina i brani che sono stati eseguiti per più di due ore di concerto. Un’immersione surreale e allucinante. Se ne esce sconvolti e consapevoli che non tutto è finito, un’esperienza che va oltre il concerto, un rito ancestrale che ci fa sentire che una parte di Italia ancora c’è, e chi era presente sa di farne parte. Forse alcuni di noi realizzeranno solo in questi giorni di avere partecipato a qualcosa di epico. E ora i fan si augurano di vedere presto il vinile e il dvd di questa serata.