Gianmarco Caselli

Compositore, ideatore e direttore artistico di Lucca Capannori Underground Festival, suona nel gruppo industrial punk CRP Collettivo Rivoluzionario Protosonico di cui è fondatore. Giornalista, musicologo e professore di italiano e storia al Liceo Artistico Musicale di Lucca, direttore responsabile di La Settima Base. Gianmarco Caselli is Composer, creator and artistic director of Lucca Capannori Underground Festival, founder of industrial post punk musical group CRP Collettivo Rivoluzionario Protosonico. Journalist, musicologist and professor of Italian and history at the Liceo Artistico Musicale in Lucca - editor in chief of La settima base

Siberia compie 40 anni – I Diaframma lo celebrano con un tour di più di trenta date

– di Gianmarco Caselli – I Diaframma di Federico Fiumani hanno infiammato il Caracol di Pisa il 15 novembre scorso con una serata del tour celebrativo dei 40 anni di “Siberia”, il primo album della storica band fiorentina. Un tour agli inizi – quella del Caracol era solo la terza data – che ha in calendario più di trenta date e che si concluderà ad aprile del 2025. Era giusto e doveroso celebrare l’anniversario di un album fondamentale per la new wave italiana, classificato al settimo posto dei “100 dischi italiani più belli di sempre”, secondo la rivista Rolling Stone Italia. Prima del concerto abbiamo scambiato alcune veloci battute con un disponibilissimo Fiumani. Sei contento di questo tour? La risposta da parte del pubblico è positiva? Sì, c’è sempre bisogno del riscontro con il pubblico e già in queste primissime date vedo una bella risposta, una forte energia. Come senti Siberia oggi? Noi siamo stati espressione di un periodo particolare, gli anni ’80. È una musica che rispecchia quegli anni. Non credi che l’ondata revival anni ’80 di questo periodo sia da collegare agli eventi storici e sociali attuali  che in parte sono molto simili ad allora? In parte, certamente. Penso che non sia un caso che I Cure siano tornati con un album che si ricollega a Disintegration e che sia balzato in cima alle classifiche. Lo hai ascoltato? Ho fatto un ascolto e devo ascoltarlo ancora bene ma mi pare molto bello. Hai qualcuno in particolare che credi interpreti musicalmente questo periodo che stiamo vivendo? Credo che la realtà musicale giovanile lo stia interpretando molto bene. Dovendo indicare qualcuno in particolare, sicuramente Blixa Bargeld e Teho Teardo, anche se non rientrano fra i giovanissimi. Fiumani è in ottima forma, con capelli verdi e chitarra dello stesso colore (“L’ho comprata perché fa pandan con i capelli”, dice scherzando con il pubblico fra una canzone e l’altra), ripercorre durante la serata i brani di Siberia ma ovviamente anche degli altri album. E quello che ne viene fuori è un concerto immersivo nel sound dei Diaframma con una sala piena e entusiasta che non ha mai smesso di ballare. Il sound è inevitabilmente quello degli anni ’80, le musiche sono quelle, ma tutto appare davvero attuale, assolutamente non datato. La voce e la chitarra di Fiumani, affiancato da giovani e validi musicisti, sono immediate, energiche e sprigionano una “gioia improvvisa” che coinvolge inevitabilmente il pubblico. Alla fine del concerto Fiumani si è prestato per fare foto con i fan e firmare autografi. A questo proposito vi consigliamo di comprare il vinile di “Siberia” in edizione speciale per l’anniversario: vinile rosa + Cd contenente “Siberia e “Live in Modena ’85” + poster 50×70 del Siberia Tour ’85 e un Maxi Booklet di 16 pagine.      

Oscar Wilde: il ritratto di un esteta

– di Gianmarco Caselli –   L’importanza di chiamarsi Oscar Wilde: è questa una delle novità editoriali presentate a Lucca Comics & Games 2024, una novel basata sulla vita del dandy per definizione edita da Becco Giallo. Una biografia, sceneggiata da Tommaso Vitiello e disegnata da Licia Cascione, per i 170 anni dalla nascita dello scrittore e che mira a far conoscere l’uomo Oscar Wilde che, dall’iniziale posizione di brillante ed eccentrico artista, scrittore e poeta al centro dell’attenzione e di successo, sprofonda col passare del tempo, nei propri tormenti e nelle proprie angosce senza mai tuttavia perdere le proprie convinzioni. Abbiamo intervistato gli autori Tommaso Vitiello e Licia Cascione allo stand di Becco Giallo a Lucca Comics & Games 2024.     Come mai proprio un lavoro su Oscar Wilde? Tommaso Vitiello: Di questo autore molte persone conoscono solo i testi teatrali più famosi o gli aforismi. La cosa che mi ha spinto a scrivere di lui è che tante persone sanno poco della sua vita. E la sua vita non è stata per niente facile.   Quali sono le particolarità della vita di Wilde che ti hanno incuriosito maggiormente? T.V.: Sapevo che dopo l’università Wilde aveva tenuto una serie di conferenze negli Stati Uniti. Gli americani , che si sono visti arrivare questo uomo alto un metro e 90, si sono sentiti in un certo qual modo minacciati e lo hanno sfidato a bevute, a box e a poker. Il “problema” è che sfidarono una persona molto intelligente che riusciva a giocare molto bene a poker, che se la cavava altrettanto bene a boxer grazie anche alla sua imponente statura e alle sue grandi mani e che era abituato, da buon irlandese a bere. Questa cosa mi ha fatto molto ridere.   Hai attinto a qualcosa di particolare per la realizzazione di questa storia? T.V.: Wilde ha scritto principalmente commedie e Salomè è stata una delle sue poche tragedie. Ciò che mi è parso interessante è il motivo per cui non è riuscito a metterla in scena in Inghilterra in quanto in questo periodo, durante il regno della regina Vittoria cioè, era difficile rappresentare un testo teatrale che ha come oggetto una donna che balla per ottenere qualcosa. E alla fine Salomè è andata in scena quando lui era in carcere: quando siamo andati a scrivere quella parte ho spedito a Licia i disegni originali che accompagnavano il libretto dell’opera.   Per quel che riguarda la grafica ci sono state ispirazioni provenute da altre illustrazioni o bozzetti? Licia Cascione: Per quanto riguarda le grafiche no, per costumi e ambienti invece mi sono rifatta molto a illustrazioni dell’epoca per  riproporre lo stile dandy, in particolare anche per quel che riguarda il tratto e i colori. C’è stata una grande ricerca sui costumi e sugli ambienti del tempo.   Avete deciso insieme di scrivere una storia su Wilde o l’idea è partita da uno di voi? T. V.: Sono stato io che ho mandato il progetto a Becco Giallo e subito ci siamo messi a cercare un disegnatore ideale per questo lavoro. Ne abbiamo vagliati diversi e quando ho visto i disegni di Licia ho detto: “Ok, sarà lei a illustrare l’opera.”   La vita di Wilde ha appassionato subito la disegnatrice? L. C.: Ero interessata a fare un lavoro su Wilde in quanto sono una grande appassionata dell’epoca vittoriana. Tuttavia, per quanto ora sia riconosciuto come figura queer, Wilde è pur sempre un uomo della sua epoca, e per alcuni suoi aspetti, dal punto di vista personale, ho inizialmente fatto un po’ di fatica ad approcciarmi a lui.       Tu hai indivudato aspetti di questo autore che hanno poi influito sulla tua visione dell’artista? L. C.: Una delle cose che mi ha colpito di più è che io immaginavo questo uomo gigantesco che cercava sempre di essere al centro dell’attenzione, che sapeva quel che faceva e voleva farlo sapere agli altri. Entrando nella storia e conoscendo così chi è stato accanto a lui, vedere l’influenza che queste persone hanno avuto su di lui è stato molto importante per me.   E questo ha influito sulla stesura grafica? L. C.: Sì, ad esempio all’inizio della storia Wilde indossa vestiti sgargianti che lo pongono al centro della scena in modo teatrale. Andando avanti, più si innamora di Bosie, più assorbe i colori dell’amante, anche lui comincia a vestirsi in azzurro fino a che non ne è completamente assuefatto.    

Quando Zio Paperone ispirò Giacomo Puccini…

– di Gianmarco Caselli – Abbiamo letto “Zio Paperone e l’opera inattesa”, la storia scritta da Alessandro Sisti e disegnata da Simona Capovilla sul Topolino n. 3597 come omaggio per il centesimo anniversario di Giacomo Puccini, senza ombra di dubbio l’ultimo grande operista della storia della musica. Mercoledì 30 ottobre la Fondazione “Simonetta Puccini per Giacomo Puccini”, in collaborazione con Panini Comics, ha organizzato un evento speciale all’Auditorium Puccini di Torre del Lago (Viareggio), con le tavole a fumetti della storia in concomitanza con il Lucca Comics & Games. La storia inizialmente sembra incentrata sulla ricerca della partitura del finale di Turandot, l’ultima opera di Puccini appunto rimasta incompiuta. Ma si tratta di un inganno di Zio Paperone per sviare Rockerduck: in realtà il plurimiliardario cerca una fotografia di Paperopoli scattata proprio da Puccini. Una storia breve in cui emergono tanti aspetti del noto operista come la sua passione per le innovazioni tecnologiche. La fotografia era una di queste: ve l’abbiamo raccontata in un altro nostro servizio relativo alla mostra “Qual occhio al mondo”. Puccini fotografo  realizzata dalla Fondazione Centro studi Licia e Carlo Ludovico Ragghianti di Lucca in collaborazione con la Fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini di Torre del Lago e il Centro studi Giacomo Puccini di Lucca. La storia di Sisti si conclude con un flashback: il lettore viene portato indietro nel tempo, quando il compositore lucchese si incontrò con Zio Paperone e fu proprio il ricco papero a ispirare Puccini con una sua storia amorosa ai tempi del Klondike da cui prenderà vita La fanciulla del West.     Abbiamo intervistato Alessandro Sisti che ci ha fornito, a corredo di questo servizio, le immagini delle tavole della storia prima di essere colorate e prima che fossero scritti i testi dentro le nuvolette.   Quale è stato il tuo primo contatto con Puccini?   Francamente è passato troppo tempo perché riesca a ricordarmene. In casa la musica era apprezzata e mia madre suonava discretamente il pianoforte, ma io le chiedevo soprattutto brani come Per Elisa di Beethoven, o la Marcia Turca di Mozart, per i quali da piccolo andavo matto, mentre di Puccini il mio preferito era il Coro a bocca chiusa. Al di là delle melodie, ho memorie più nitide di quando iniziai a farmi un’idea di Puccini come personaggio. Risalgono a quand’ero ormai già alle medie e allo sceneggiato Rai interpretato da Alberto Lionello, la cui sigla iniziale mi pare fosse proprio (con mia grande soddisfazione d’allora) quel coro della Butterfly cui accennavo prima.   – Conoscevi la sua passione per le novità tecnologiche o l’hai scoperta studiando il modo di realizzare  questa storia?   La conoscevo, come credo la maggior parte del pubblico, segnatamente per ciò che riguarda la velocità e i motori, o l’innovazione applicata alla diffusione della musica, grazie alla quale è stato fra i primi a veicolare le proprie opere incise su disco. Confesso invece che ignoravo il suo amore per la fotografia. A raccontarmelo è stata Patrizia Mavilla, la direttrice della Fondazione Simonetta Puccini, regalandomi un’informazione preziosa che è divenuta la chiave di volta dell’avventura pubblicata su Topolino.   – Hai un’opera preferita di Puccini?   Potrei dirvene una… e dopo me ne verrebbe in mente un’altra e poi un’altra ancora. La verità è che le preferisco tutte, musicalmente e ancor più per il fatto che Puccini – lo dichiarò lui stesso – con le note riteneva di scrivere teatro e diceva di non saper fare musica senza una storia. Per chi di storie vive, come nel mio piccolo faccio io, è un’affermazione esaltante.     – Molto carino il finale in cui a Puccini viene l’idea di comporre La fanciulla del West ispirandosi a un’avventura amorosa nel Klondike di Zio Paperone. Ci dici come ti è venuta in mente?   È nata ragionando sul fatto che gli anni di Puccini e quelli del giovane Zio Paperone, intento a porre le basi della sua fortuna come cercatore d’oro, riportano alla medesima epoca. Approfondendo quell’intuizione ho trovato una miniera di corrispondenze. I cercatori erano spesso appassionati di musica, una delle poche opportunità di sollievo e d’elevazione nelle loro esistenze, e ne La fanciulla del West molta dell’azione scenica si svolge alla Polka, il saloon della protagonista Minnie, non diverso da quello della Bolla d’Oro di Doretta Doremì frequentato da Paperone. Eccetto il dettaglio che lo sfondo de La fanciulla è quello della Corsa all’Oro californiana anziché quella del Klondike, i conti tornavano, tanto più – tengo a sottolinearlo – considerando che a unirli non è una generica vicenda sentimentale del papero più ricco del mondo, bensì il suo indimenticato e forse unico amore, rievocato addirittura nel 1953 dal suo creatore Carl Barks. Non c’è dubbio che se mai Zio Paperone ne avesse parlato a Puccini, l’avrebbe fatto con accenti adatti a ispirarlo.     – Non è certamente facile ideare una storia originale su Puccini e i paperi. Da quali spunti sei partito?   Per essere sincero è stato più semplice di quanto possa sembrare. Come dicevo, gli ingredienti fondamentali erano già tutti nella realtà storica e non avevo che da ricucinarli in una prospettiva disneyana. La scelta era come servirli: contestualizzandoli integralmente nel passato come ho fatto in altre occasioni, oppure al presente? A farmi decidere sono stati gli scenari di Torre del Lago Puccini e della residenza del compositore, che oggi è la villa-museo a lui dedicata, che mi sono sembrati subito la risorsa più desiderabile per una narrazione anche visivamente ricca e diversa, nella sicurezza che la mia co-autrice Simona Capovilla, che ha disegnato la storia, avrebbe saputo sfruttarli nel modo migliore.   – Non è stata la vostra prima collaborazione, giusto?   Sì, abbiamo lavorato insieme su diverse altre storie. Per me (e spero anche per lei) sono state tutte esperienze gratificanti, perché Simona è un’artista di rango, con un talento per la recitazione dei personaggi e uno splendido senso della scena. In più l’ho scoperta essere anche una musicista e una pucciniana convinta, tanto che

Con Songs Of A Lost World i Cure ritrovano il suono perduto

– di Gianmarco Caselli –   Finalmente è arrivato. Dopo ben sedici anni e annunci disattesi sull’uscita di uno o addirittura più album, il primo novembre i fan di The Cure hanno potuto ascoltare il nuovo lavoro della band, Songs of a Lost World. L’attesa è stata lunghissima e, quando è stato chiaro che stavolta l’album sarebbe veramente uscito, piena di grandi aspettative. Aspettative alte, altissime, soprattutto dopo che è stato diffuso Alone, il primo singolo, che ha fatto sognare ai fan un altro lavoro alla pari di Disintegration (1989), forse l’album capolavoro della band. Lo stesso Robert Smith vi ha fatto riferimento affermando che voleva ricreare un’atmosfera come in Pornography (1982) e Disintegration.   Diciamo subito che il confronto comunque non regge, Disintegration è e resta irraggiungibile, ma la qualità di Songs of a Lost World cresce ad ogni ascolto e si riallaccia all’album del 1989 per tanti versi: per i testi, per le sonorità e per l’atmosfera generale, e di certo è un gran bell’album: il nostro voto è 9. Consigliamo un ascolto in cuffia o a volume alto con un buon impianto per godere appieno non solo della voce – notevole per l’età – di Smith in ottima forma, ma anche della raffinata ricerca dei suoni che costellano questo album. Vi perdereste degli elementi che fanno comprendere quanto questa opera sia veramente ricercata e complessa, perfetta nel creare un amalgama sonoro che ci avvolga nelle sue spire.   Se si considera poi che dopo le punte toccate dalla band con il già nominato Disintegration (1989) e Wish (1992) gli album successivi (su tutti Wild mood swings del 1996) non sono stati da ricordare, con l’eccezione di Bloodflowers (2000), Songs of a Lost World è una vera e propria boccata di ossigeno per i fan. Ad affiancare Robert Smith sono il fedele Simon Gallup al basso, Roger O’Donnel alle tastiere, Reeves Gabrels alla chitarra e Jason Copper alla batteria.   Songs of a Lost World è per certi versi una summa matura delle punte toccate dalla band fra fine anni ’80 e inizio anni ’90 che ci immerge nel decadentismo imperante dei nostri tempi. Robert Smith e soci hanno infatti voluto non solo riprendere quelle sonorità, ma anche attualizzarle e realizzare un album sincero, senza strizzare l’occhio alle dinamiche del marketing con inserimenti di brani facili e commerciali: si è capito subito dal primo ascolto della intro strumentale del brano di apertura Alone, lunghissima per i canoni musicali del nostro tempo. Proseguendo con l’ascolto godetevi l’apertura armonica di And nothing is forever e lasciatevi cullare da A fragile thing, brano che difficilmente vi toglierete dalla testa. Warsong e Drone:Nodrone invece ci portano improvvisamente in atmosfere più dure che ricordano quelle di Wish. È I can never say goodbye che di nuovo ci proietta nella dimensione onirica prevalente dell’album, mentre la successiva All I ever am ci coinvolge subito con una base ritmica trascinante che  fa venire voglia di non uscire mai da questo disco di cui ci sembra di far parte. Chiude l’album una epica Endsong di ben dieci minuti, devastante per intensità e che chiude il cerchio aperto con Alone.   Le sonorità sono dense ma fresche, non danno assolutamente l’idea di ricalcare qualcosa di già fatto, e danno all’album energia e coerenza. Tutti i brani sono notevolmente ispirati (di mezzo ci sono la perdita dei genitori, del fratello e l’incombere dell’età) e si muovono in atmosfere dark rischiarate da luce lunare che rende il tutto sognante, non opprimente. Una luce lunare rischiara le tenebre dei testi: il disco si doveva intitolare Live from The Moon  e Endsong è stata scritta anche pensando ai cinquanta anni dello sbarco dell’uomo sulla luna. And I’m outside in the dark / Staring at the blood red moon, sono i primi versi del brano conclusivo dell’album.   Songs of a Lost World è un album armonico, non ci sono brani che stridono, tutto fila via con un’atmosfera irreale. I Cure hanno ricreato un mondo sonoro musicale perduto a cui essi in primis avevano dato un sound unico attualizzandolo con uno nuovo che riflette il mondo attuale.   Difficile scegliere quali edizioni comprare: oltre alle versioni standard si può optare per la doppia cassetta che oltre all’album “normale” offre i brani esclusivamente strumentali, o per il triplo cd che, oltre al cd standard propone un dvd blu ray e uno con le versioni strumentali; se andiamo sul vinile possiamo scegliere il doppio vinile half-speed da 180 gr oppure quello bianco, sempre da 180 gr, o quello color marmo. A voi l’ardua scelta. Per la cronaca Smith ha parlato anche di un nuovo album in lavorazione virtualmente finito, e che potrebbe arrivare anche un terzo disco. Ma intanto godiamoci questo.      

El Santo: la colonna sonora dei dannati del West

– di Gianmarco Caselli El Santo, un disco per spiriti ribelli e solitari, per chi combatte contro le ingiustizie e sta sempre dalla parte del più debole; e la potente copertina di Cristina Rovini evoca in un attimo proprio tutte queste suggestioni proiettandoci nel far west e nei suoi spazi sconfinati.     Stiamo parlando del secondo album di Dome La Muerte E.X.P., il gruppo spaghetti western del mitico Dome La Muerte, uscito per la Go Down Records. E non stupisce che El Santo faccia riferimento a eroi che combattono contro le ingiustizie, a eroi solitari fuori dal sistema se si pensa a Dome La Muerte, indubbiamente il personaggio musicale più importante della storia musicale underground italiana che – fra i vari riconoscimenti – ha ricevuto nel 2019 il Premio Capannori Underground Festival 2019 per la diffusione della cultura Underground.     El Santo non è un disco come gli altri anche dal punto di vista concettuale dal momento che è concepito come una colonna sonora di un film che non esiste e, al tempo stesso, sembra una Spoon River del Far West: ogni singolo brano è infatti ispirato a un personaggio, un luogo o una situazione. Con questo album prosegue così la coraggiosa avventura di Dome La Muerte E.X.P. a otto anni dall’uscita del primo, Lazy Sunny Day, ma sempre con la stessa formazione. Va ricordato che fra il primo e il secondo. di Dome La Muerte E.X.P. è uscito in digitale un singolo per l’etichetta Cinedelic che ha prodotto il primo disco insieme alla GODown.     Abbiamo intervistato Dome La Muerte proprio riguardo a questo nuovo album.   Quali sono le differenze sostanziali rispetto al primo album, Lazy Sunny Day? Il primo album mescolava sonorità spaghetti western con brani anche cantati che si rifacevano sia alla psichedelia anni ’70, sia ai raga della musica indiana e infatti c’è molto utilizzo del sitar; la particolarità era quella di mescolare la psichedelia con i suoni da canyon. Questo invece – prodotto dalla GoDown records – è strutturato come una vera e propria colonna sonora. Ci sono dei temi, delle tracce che hanno forma canzone anche se sono tutte strumentali. Unica eccezione, a questo proposito, è la bonus track che è presente solo su vinile, registrata con Hugo Race e Max Larocca. Ci sono brani che durano più di tre minuti come altri che durano un minuto e poco più, con temi che ritornano anche durante l’album   Avevi in mente un film in particolare quando hai concepito questo album? L’album me lo sono inventato nella testa: tutti i film spaghetti western, anche quelli di serie zeta, hanno una cosa che non capivo quando avevo 13 anni e li vedevo al cinema del paese: hanno tutti un risvolto sociale e politico al di là del fatto che all’epoca venivano presi come film di puro svago e divertimento. Invece nelle trame c’è sempre il prepotente, l’eroe che lo combatte, che si scontra contro il potere, contro le ingiustizie e sta sempre dalla parte del più debole. Riflettono il periodo storico della fine anni ’60 e inizio ’70 in cui c’era una rivoluzione nelle strade; era un periodo di grandi sogni di cambiamenti che si rifletteva in questo tipo di cinema come nell’horror e nella fantascienza. Erano modalità per fare una fotografia della società. Per questo motivo ho preso questo spunto dai film spaghetti western e ho creato una colonna sonora. Ogni brano è dedicato a un personaggio, un attivista, un nativo americano.   A questo proposito c’è una dedica particolare. Sì, sul retro della copertina c’è scritto Free Leonard Peltier: è un prigioniero politico nativo americano, una sorta di Nelson Mandela degli indiani di America per il quale chiediamo la liberazione dagli anni ’80. Sul retro di copertina abbiamo riportato anche un indirizzo per avere informazioni utili per supportare la richiesta della sua liberazione.     Ci sono anche brani dedicati non solo a personaggi. Una situazione cui è dedicato un brano è l’ultimo grande massacro dei nativi americani a fine ‘800. Ma nello stesso posto è rinata la resistenza indiana. È un luogo simbolo. Ogni brano è un film. Ma come ordinare i brani lo avevo in mente ancor prima di cominciare l’album. È nata la storia prima della musica.   Musicalmente chi ha scritto i brani? I brani li ho scritti io, poi ogni componente del gruppo ci mette del suo perché sono musicisti che hanno una grande cultura musicale. Alcuni brani sono firmati con il tastierista Luca Valdambrini.   Ti piace Tex Willer? Lo leggevo. Da piccolo mi piaceva anche se non tutto. Mi piaceva di più Zagor. Anche Ken Parker. C’è un brano, Long Rifle, che è dedicato proprio a Ken Parker: è l’unico personaggio immaginario dell’album, tutti gli altri sono veri. Uno è dedicato a Gian Maria Volontè.   Esistono altri gruppi spaghetti western? In California ce ne sono.   Quando e come hai iniziato a pensare di fare un gruppo spaghetti western? Sonorità del genere le inserivo già nei primi dischi con i Not Moving, con chitarre “morriconiane”: mi è sempre piaciuta quel tipo di sonorità. Già nel mio primo disco c’erano alcuni pezzi dark blues o stile spaghetti western, però con un po’ di psichedelia. Poi tutte le band che avevo, anche i Diggers, avevano alla fine almeno un pezzo spaghetti western. Ho pensato che non potevo massacrare tutti i gruppi in cui suonavo con questa storia, dovevo fare un gruppo dedicato esclusivamente a queste sonorità.   Che tipo di riscontro ha una band con sonorità così particolari? Abbiamo avuto più recensioni e passaggi radio all’estero che in Italia, dai resoconti che mi sono arrivati. Che la band sarebbe stata molto di nicchia, lo sapevo già in partenza. Mi sono meravigliato quando ci ha notato Capossela e ci ha invitato a Sponz Fest con migliaia di persone di pubblico. Quando il pubblico ci vede ci riempie di complimenti, tutti apprezzano l’originalità. È comunque uno spaghetti western distorto, gli abbiamo dato il nostro suono con strumenti vintage.   Due

CCCP – Tour alla conclusione: cosa accadrà dopo?

– di Gianmarco Caselli –   Con la data del 27 agosto al Festival Settembre Prato è Spettacolo, organizzato da Fonderia Cultart in collaborazione con il Comune di Prato, rimane un’ultima data – a Mantova il 29 agosto – per il tour dei CCCP Fedeli alla Linea: “In fedeltà la linea c’è.”. Un tour che abbiamo seguito fin dalla sua prima epica data il 21 maggio a Bologna con quasi novemila persone ad assistere allo storico ritorno sulle piazze italiane della band simbolo del punk italiano. Una reunion preceduta dall’imponente mostra ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia sulla storia del gruppo.   Il ritorno dei CCCP, che si erano sciolti nel 1990 con quattro album all’attivo che hanno segnato indelebilmente la storia del punk italiano, è stato tanto atteso quanto incredibile.     Il tour ha avuto un successo strepitoso, e forse è andato anche oltre le previsioni del gruppo stesso, accompagnato da un merchandising notevole, nonché dalla pubblicazione di un nuovo album, Altro che nuovo nuovo: il primo live dei CCCP risalente al 1983. Quello che sicuramente ha funzionato è stato vedere sui palchi un gruppo vivo, non l’imitazione di se stesso: chi è stato ad almeno una data del tour, ha visto i CCCP, con Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur, affiatati e coinvolgenti come se non ci fosse stata una pausa lunga più di trenta anni.   La storia dopo i CCCP la conosciamo tutti: nell’ultimo disco del 1990, Epica Etica Etnica Pathos erano entrati nella formazione alcuni ex Litfiba come Gianni Maroccolo e lo storico batterista Ringo De Palma (per la cronaca sarà l’unico album dei CCCP con una batteria vera poi, ultimato l’album, Ringo purtroppo lascerà la nostra valle di lacrime) e da questa formazione “allargata” con ben otto musicisti, sciolti i CCCP, nacquero i CSI – Consorzio Suonatori Indipendenti. Con la clamorosa fuoriuscita di Zamboni e lo scioglimento dei CSI, nasceranno i PGR Per Grazia Ricevuta e, in un lancinante e inesorabile gioco al massacro di sottrazione di componenti dalla formazione, i PG3R costituiti solo da Ferretti, Maroccolo e Giorgio Canali.     In ogni caso, i CSI non erano i CCCP: questi non esistevano più dal 3 ottobre del 1990, data della riunificazione tedesca.  Un’assenza che sembrava definitiva, durata più di trenta anni e durante la quale, finiti anche i CSI e i PGR, soprattutto Zamboni e Ferretti hanno proseguito con le loro carriere soliste. A questo proposito, se vi piacciono le sonorità alla CSI, se non lo avete ancora fatto ascoltate La mia patria attuale, album solista di Zamboni del 2022, e rimarrete piacevolmente sorpresi. Non mancano le polemiche ovviamente, per i prezzi dei biglietti e del merchandising, ma del resto i CCCP sono sempre stati in grado di sollevarle, a partire da quando firmarono il contratto con la Virgin che fu sicuramente determinante nel proiettare il gruppo in un’orbita meno di nicchia ma che – allo stesso tempo – sollevava malumori fra i fan duri e puri della scena alternativa. Per non parlare, ovviamente, delle prese di posizione politiche e religiose di Ferretti. Ma del resto il punk è anche questo, provocazione: basti pensare ai Sex Pistols con Sid Vicious che ostentava la svastica, al contratto con la EMI, al Filthy Lucre Tour (il tour reunion dichiaratamente fatto a scopo di lucro). E comunque tutto ciò ha permesso di far conoscere al grande pubblico un gruppo, i CCCP, con una musica completamente nuova per il panorama musicale italiano, e unico anche per i testi e le performance di Annarella e Fatur. Sul palco la band per il tour ideato da Musiche Metropolitane è stata accompagnata da Luca Rossi, Simone Filippi, Ezio Bonicelli, Simone Beneventi e Gabriele Genta   Adesso manca la data di Mantova per chiudere il tour.   La domanda fatidica è cosa accadrà dopo.   Se da una parte molti immaginano che venga pubblicato un disco live testimonianza di questo tour, quello che tutti i fan sperano veramente è che la band non scompaia nuovamente (e definitivamente) e che riprenda la propria attività realizzando magari un nuovo album di inediti. Una speranza forse esagerata, ma a questo punto tutto è possibile.    

Nuova data a Prato per il tour dei CCCP

– di Gianmarco Caselli –   Si aggiunge a Prato una nuova data per il tour dei CCCP Fedeli alla Linea il 27 agosto prossimo nella programmazione del Festival Settembre Prato è Spettacolo. Un ritorno alla grande, quello della band icona del punk italiano, con un tour che è già storia, iniziato con l’ormai leggendaria data a Bologna del 21 maggio scorso.   Un tour, quello dei CCCP, che non è un’operazione nostalgica ma un vero e proprio evento che dà una scossa alla stagnante musica italiana. La formazione è al completo, quello che per i fan sembrava un sogno irrealizzabile è diventato incredibilmente realtà: Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Danilo Fatur e Annarella Giudici danno voce non solo alla generazione che li ha visti in auge negli anni ’80, ma anche alle nuove leve che non vogliono omologarsi alla musica mainstream.     Sul palco di Piazza Duomo a Prato i CCCP daranno vita a un evento che va quindi oltre il tradizionale concetto di concerto grazie alle performances di Annarella e Danilo Fatur, coinvolgenti e instasncabili. In scaletta i grandi classici della band, alcuni dei quali rivisitati, da 1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età del 1985 a Epica Etica Etnica Pathos del 1990. Il Festival Settembre Prato è Spettacolo, è organizzato da Fonderia Cultart in collaborazione con il Comune di Prato.    

I CCCP infiammano Bologna

– di Gianmarco Caselli – I CCCP Fedeli alla linea di nuovo insieme sul palco in Piazza Maggiore a Bologna. Chi era presente in quella piazza martedì 21 maggio sa di avere partecipato a uno spettacolo unico, indimenticabile e potrà dire un giorno: io c’ero. Una piazza gremita all’inverosimile, quasi novemila persone, accorse per assistere a un evento a dir poco storico per la musica italiana. Non si tratta infatti “solo” della riunione del gruppo simbolo del punk italiano, ma anche della prima data del tour nella penisola e, cosa assolutamente non secondaria, si è tenuto a Bologna (cosa non indifferente essendo i CCCP un gruppo punk emiliano). Un’emozione che lascia quasi sconvolti pervade il pubblico quando sul palco salgono i quattro CCCP: Massimo Zamboni, Giovanni Lindo Ferretti, Danilo Fatur, Annarella Giudici. Difficile dire se il tempo si è fermato o ha ripreso a muoversi. Una sensazione ovviamente ancor più forte di quella che abbiamo potuto provare visitando la mostra “Felicitazioni” a Reggio Emilia. Di certo, per chi ha minimo una quarantina di anni, si tratta di una sensazione strana, stranissima. Da un lato è ovviamente fantastico, soprattutto per chi è cresciuto con la musica dei CCCP e magari li ha visti suonare, rivederli insieme, rivivere quelle emozioni. Però è anche straniante soprattutto sentire certi testi in un contesto storico culturale completamente diverso. Quando la band attacca con “Depressione caspica” il pubblico realizza che tutto è vero, i CCCP stanno suonando di nuovo insieme. E dal secondo brano, “Rozzemilia”, si scatena l’inferno con un pogo che non si placa quasi mai dall’inizio alla fine del concerto.     Ferretti si è sbarbato, non ci sono più i baffoni con cui lo vedevamo negli ultimi tempi e questo particolare ci fa credere ancor più di essere tornati ai vecchi tempi; canta per la maggior parte del concerto con le mani in tasca, spesso con gli occhi chiusi: la tensione per un evento del genere è palpabile, sembra sciogliersi con mezzi sorrisi solo quando, un paio di volte, Annarella va da lui per fargli una carezza o per offrirgli una sigaretta. Anche Fatur a un certo punto gli dà una pacca. Zamboni è più a suo agio, si diverte sul palco e si vede; quando poi prende il microfono e si mette a cantare Kebabträume dei DAF saltellando, esprime tutta la sua voglia e la sua felicità di avere di nuovo i CCCP riuniti. Il sorriso è costantemente stampato sulla sua faccia.La chitarra di Zamboni è perfetta, il sound è quello che i fan vogliono, quello originario della band, anche quando le musiche vengono presentate in vesti nuove, in rielaborazioni. Annarella cambia più volte personaggio, ora vestita in un burka, ora avvolta nel tricolore italiano, ora con la bandiera del PCI, e corre imperturbabile alternando il tutto a brevi letture. E che brividi sentirla introdurre, urlando, “Emilia paranoica”; che emozione lancinante quando tira il suo grido a “bombardieri su Beirut.” Fatur è semplicemente meraviglioso:  sfodera il suo fisico che non è propriamente scultoreo come una volta, e interagisce con il pubblico anche con espressioni facciali che solo quelli nelle prime file come noi – nonostante il pogo allucinante – hanno avuto la fortuna di ammirare nella sua interezza.     Ferretti si rivolge direttamente al pubblico solo nel finale quando esprime, a nome del gruppo, il proprio piacere di essere lì, con una sua tipica, breve risata rilassata e liberatoria. Sono quasi una trentina i brani che sono stati eseguiti per più di due ore di concerto. Un’immersione surreale e allucinante. Se ne esce sconvolti e consapevoli che non tutto è finito, un’esperienza che va oltre il concerto, un rito ancestrale che ci fa sentire che una parte di Italia ancora c’è, e chi era presente sa di farne parte. Forse alcuni di noi realizzeranno solo in questi giorni di avere partecipato a qualcosa di epico. E ora i fan si augurano di vedere presto il vinile e il dvd di questa serata.  

Giacomo Puccini fotografo

“Qual occhio al mondo”. Puccini fotografo – La mostra allestita alla Fondazione Ragghianti rivela un nuovo aspetto del compositore lucchese   – di Gianmarco Caselli   È un Giacomo Puccini del tutto inedito e sconosciuto quello che viene proposto nella mostra “Qual occhio al mondo”. Puccini fotografo alla Fondazione Ragghianti di Lucca aperta fino al 1° aprile. Realizzata dalla Fondazione Centro studi Licia e Carlo Ludovico Ragghianti in collaborazione con la Fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini di Torre del Lago e il Centro studi Giacomo Puccini di Lucca, l’esposizione svela infatti una passione del compositore che non conoscevamo.   La mostra si articola in più sezioni basandosi sui materiali conservati nell’Archivio Puccini di Torre del Lago, e in piccola parte provenienti da altri fondi. Una vera e propria sorpresa: fino all’apertura dell’Archivio Puccini di Torre del Lago (Lucca), in particolare quando è stata concessa agli studiosi la consultazione della più importante parte della documentazione, nessuno immaginava di trovarvi pellicole e fotografie realizzate dal compositore stesso. Sono oltre ottanta le fotografie esposte. E se Puccini ha interpretato le emozioni e il mondo con la sua musica, qui possiamo ammirare come interpretasse il mondo anche con la macchina fotografica. Ai tempi del compositore non solo non era così scontato possedere una macchina fotografica, anzi. Puccini, amante delle nuove tecnologie, ce l’aveva, anch’essa esposta a Lucca, un raro modello Kodak No. 4 Panorama Camera Model B, apparecchio a cassetta (realizzato in metallo, legno e vetro) ricoperto in cuoio e prodotto nel 1899. Anche solo per le dimensioni, non piccole come le fotocamere a cui siamo abituati da anni, è evidente come scattare fotografie da parte del compositore fosse qualcosa di più che un passatempo.     Non mancano notevoli scatti di complessi architettonici e vedute panoramiche di città visitate dal compositore come New York, ma  uno dei soggetti che attira maggiormente Puccini è la natura selvaggia, incontaminata, a partire dal “suo” Lago di Massaciuccoli. Non si può rimanere indifferenti di fronte alle foto in cui il compositore ritrae  i cavalli nella pampa o l’oceano, catturato in quella che avrebbe potuto essere una semplice fotografia ricordo scattata dalla nave, e che invece grazie a Puccini emerge in tutta la sua forza naturale, irrazionale e indomita.   Nelle fotografie del compositore il confine fra fotografia artistica e scatto per “immagazzinare” nella memoria impressioni da trasferire forse in seguito nelle opere, è sottile. È questa la vera sorpresa e il valore di una mostra che va al di là della mera curiosità dello scoprire un Puccini anche fotografo.    E Puccini, sempre acuto, conscio di ciò che poteva essere valido e di ciò che poteva non esserlo durante la stesura delle proprie musiche, è probabilmente consapevole anche della validità artistica di alcuni dei suoi scatti. Ne è prova una fotografia in cui il compositore lucchese ha immortalato due barche sul lago di Massaciuccoli. Da questa foto Puccini farà realizzare una cartolina e, sotto l’immagine, scriverà a penna «!Opera mia!».     Per quanto si tratti di una annotazione ironica, è chiaro come il musicista sia consapevole di avere realizzato qualcosa di artistico, un’opera creata con una tecnologia relativamente nuova che può gareggiare con la pittura. E non a caso questa cartolina è indirizzata al pittore Guglielmo Amedeo Lori, esponente non di secondo piano del Divisionismo. Nella parte finale della mostra troviamo una serie di bellissimi ritratti fotografici del compositore fra i quali quelli che hanno tramandato la sua iconica immagine così come la conosciamo noi oggi. L’esposizione, a cura di Gabriella Biagi Ravenni, Paolo Bolpagni e Diana Toccafondi, sarà visitabile gratuitamente fino al 1° aprile 2024 nella Sala dell’affresco del Complesso di San Micheletto a Lucca, con ingresso da via Elisa, 8.     La mostra, realizzata con il supporto della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, si avvale del patrocinio della Regione Toscana e della Provincia e del Comune di Lucca, con la partnership della Fondazione Giacomo Puccini di Lucca, della Fondazione Festival Pucciniano di Torre del Lago e dell’Associazione Lucchesi nel Mondo, ente gestore del Museo Pucciniano di Celle. Il comitato scientifico della mostra è costituito da Claudia Baroncini, Barbara Cattaneo, Maria Pia Ferraris, Michele Girardi, Giovanni Godi e Umberto Sereni.   Per l’occasione è stato realizzato un catalogo (Edizioni Fondazione Ragghianti Studi sull’arte) contenente le riproduzioni di tutte le fotografie esposte e i testi di Gabriella Biagi Ravenni, Paolo Bolpagni, Manuel Rossi ed Eugenia Di Rocco.     Sede Sala dell’affresco | Complesso di San Micheletto | Lucca Ingresso da via Elisa n. 8   Orari dal martedì alla domenica dalle 10 alle 18 apertura straordinaria lunedì 1° aprile   | Ingresso gratuito |    www.fondazioneragghianti.it info@fondazioneragghianti.it tel. 0583.467205